Se non sapessi che mi trovo fra Calabria e Basilicata, potrei pensare di essere in qualche sperduta valle alpina. Che gioia avere finalmente visitato il Parco Nazionale del Pollino, il terzo e probabilmente il più bello della Calabria. Mi trovo chilometri lontano da casa, ma non sono affatto spaesato e confuso: intorno a me ci sono i monti, i miei amati monti, e soprattutto foreste di faggi a perdita d'occhio. E questa volta l'espressione non è sprecata: questo parco meridionale è il più grande d'Italia, per estensione geografica. Non voglio sbagliare, quindi scelgo di unirmi ad un gruppo con guida, cosa che non mi appartiene molto. La scelta si rivelerà felice solo in parte. La prima tappa di avvicinamento è il viaggio di tre ore che faccio il giorno prima, per fermarmi a dormire a 45 minuti dal meeting point. Il posto più vicino che ho trovato è un B&B a Lungro, paesino letteralmente arroccato sulle aspre cime della Calabria settentrionale. Trascorro una piacevole serata in compagnia di sconosciuti ed ho il piacere di entrare in contatto con la cultura Arbereshe, della quale avevo sentito parlare ma della quale scopro di non sapere nulla. Lungro è la capitale religiosa di questa etnia che da cinque secoli vive queste terre. Sono albanesi fuggiti alle persecuzioni musulmane, che hanno fondato colonie nel nord della Calabria, mantenendo viva cultura, folklore, tradizioni, cucina e soprattutto la loro lingua. Ancora oggi parlano l'albanese di 500 anni fa, con qualche contaminazione di calabrese. È una delle tante sorprese di un territorio che non conoscerò mai abbastanza. Con questa esperienza ancora fresca, mi incammino con il gruppo verso la cima del Dolcedorme, la vetta più alta del sud Italia. Per trovare un monte più alto, andando verso nord, bisogna raggiungere il Gran Sasso. La nostra guida, Francesco, ci accompagna cercando di trasmettere al gruppo tutto l'amore e la passione che ha per questa terra, la sua terra. Parla con trasporto dei luoghi, delle genti, degli animali e degli alberi. Poi, teatralmente, appena usciamo dalla faggeta per entrare in una radura perfettamente rasata dal bestiame al pascolo, spalanca le braccia per presentarci quello che lui chiama "il mio Amico". È la cima del Dolcedorme, che vediamo per la prima volta oggi, lontana e maestosa. Ha una forma piramidale contornata da una corona di alberi che sembrano sorreggerla verso il cielo. Il percorso è abbastanza impegnativo e lungo, ma trovo che sia reso più difficile dalle numerosissime soste. Tali soste servono a Francesco per rendersi conto che tutto il gruppo riesca a percorrere l'intero percorso senza problemi, oltre che ha fornirci informazioni che avvalorano il piacere della camminata. In questa terra calcata dai lupi e in questo cielo solcato dai grifoni, il vero Re non è un animale, ma un albero, fermo, muto, resiliente. Si tratta del Pino Loricato, simbolo del Parco. Cerchiamo l'albero e lo troviamo, più volte, ad alta quota. Solo, isolato, in mezzo alla faggeta, vivo e vegeto, oppure morto e privo di linfa vitale, ma ancora ritto e imbiancato. Sono sempre affascinato dagli alberi, ma raramente ho provato il senso di rispetto che provo al cospetto di questo maestoso guardiano del tempo. La sua corteccia, prioprio come evidenzia il suo nome, pare la corazza di un guerriero. E questo albero è un guerriero. Non riesco a trovare parole migliori di quelle dello scrittore Pino Aprile per definire questo albero e, forse, questa aspra e fiera terra fra mare e montagna. “Il Pino Loricato, fossile vivente, coevo dei dinosauri, a cui somiglia, per la corteccia a scaglie, “a lorica”, come le armature dei guerrieri di una volta. É un albero dai tempi lentissimi, come obbedisse a cicli non più nostri (… ) si è rifugiato nei luoghi più impervi e ventosi, tra burrasche, gelo e petraie. E dove nessun’altra essenza sopravviverebbe, il pino loricato domina millenario, scolpito dal tempo e dai fulmini. Quando muore, perde la corteccia e appare bianco come marmo funerario. Ma resta in piedi, re del silenzio, candido monumento a se stesso.”
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Tre giorni nel Parco Nazionale del Gran Paradiso. Cosa volere di più? Dopo tanto tempo e tanti video ammirati a bocca aperta sul più antico dei parchi nazionali italiani, finalmente il sogno diventa realtà e, nonostante il Covid, le difficoltà lavorative ed organizzative, riusciamo a mettere in piedi questa tre giorni che difficilmente dimenticheremo. Partiamo con il buio da Rimini per raggiungere di mattino presto il parcheggio della Valnontey. Il programma è raggiungere il Rifugio Sella a quota 2626, dopo avere salito un dislivello di quasi mille metri. La meraviglia del panorama e la bellezza aspra della valle ci conquista da subito, rendendo meno difficile la salita. Dopo una bellissima serata in compagnia, il giorno successivo ripartiamo con le prime luci per una escursione più impegnativa del giorno precedente: è il nostri unico giorno veramente pieno in questa regione di confine, e vogliamo godercelo fino in fondo. Le nubi fosche e la pioggerella non smorzano il nostro fanciullesco entusiasmo. Siamo nella bellissima Valsavarenche e puntiamo a due rifugi: prima il Chabod (sosta pranzo) a quota 2710, poi dopo alcuni chilometri di sali scendo il Vittorio Emanuele II a quota 2732. Infine una ripidissima discesa per riguadagnare quota nella fiabesca valle: oltre 20 chilometri e 1200 metri di dislivello complessivo in salita in 9 ore di cammino. Volevamo una giornata piena e l'abbiamo avuta! Il giorno successivo abbiamo ripreso fiato, percorrendo il facile percorso immerso nel verde che porta dal parcheggio al rifugio Benevolo, dove abbiamo trascorso una ristoratrice pausa pranzo distesi sul prato, baciati da un piacevolissimo sole estivo. La cosa che mi ha sorpreso di più della Val d'Aosta? Parrà strano, in una terra fatta di rocce, alberi e montagne altissime: l'acqua. L'acqua è il vero protagonista della valle, a mio avviso. Scorre ovunque ed è la vera colonna sonora delle nostre escursioni. Ovunque si sente il dolce rumore di un ruscello, la forza di un fiume in piena oppure il ruggio impetuoso di una cascata. L'acqua ti riempie gli occhi e le orecchie, punteggiando di schiuma bianca un panorama altrimenti dominato da mille sfumature di verde. È un autentico mare, un mare di montagna, quello che caratterizza questi tre giorni di fatica e gioia in questa nuova terra di conquista e, piantando la bandiera delle Piadine Randagie, mi sento più un marinaio sulla spiaggia di una inesplorata isola deserta che un montanaro a oltre 2500 metri sul livello del mare. La Val d'Aosta è una terra di sorprese, tutte piacevoli, un luogo che rapisce il cuore e ribalta le attese, rendendo la gioia desiderata un'emozione che prende alla bocca dello stomaco, togliendo il fiato. Mi è difficile pensare a qualcosa di più piacevole che fare una camminata nei boschi in compagnia di qualche amico. Se poi questi amici sono ragazzacci con i quali hai condiviso il periodo formativo dell'adolescenza, l'escursione acquisisce maggior valore. Quando vengo contattato da uno di questi, per sapere se sono disponibile per organizzare un'escursione di gruppo, mi sento quasi preso per i fondelli. Ma stiamo scherzando? Non chiedo di meglio! Con entusiasmo mi butto a capofitto nel "progetto" ed in poche ore metto in piedi un semplice ma efficace programma: anello facile da Badia Prataglia verso Monte Penna e chiusura con "i piedi sotto la tavola", come amava dire mio zio Giorgio, al quale il concetto di panino era completamente sconosciuto. L'armata Brancaleone si allarga ed alla partenza il gruppo conta più membri del previsto. In un clima da gita scolastica saliamo le rampe che ci portano a Campo dell'Agio, mentre i vecchi amici ironizzano su tutto e tutti. Non prendersi mai sul serio è sempre stato un tratto distintivo di questo gruppo e (speriamo...) un elisir di lunga vita. Il romagnolo è una strana bestia: in compagnia non sa stare serio e sente la necessità di dissacrare ogni cosa, ma preso isolatamente può raggiungere alte vette di serietà e riflessione. L'escursionismo nel bosco offre la possibilità di testare questa strana specie di essere umano. In gruppo l'atmosfera è da film di Alvaro Vitali, ma quando la salita fa selezione o più semplicemente si rimane isolati in coppia, ecco che arrivano i discorsi più seri, vagamente esistenziali. Il contrasto è affascinante e mi fa quasi sorridere constatare questa insolita forma di trasformismo, alla quale anche io non mi sottraggo: in branco sembriamo bambini o al massimo adolescenti, ma isolatamente possiamo diventare vecchi saggi, forse anche un po' barbosi. Probabilmente è per questo motivo che evitiamo l'isolamento, perché in compagnia è sempre festa ed evitiamo di confrontarci con la nostra natura più intima, mettendo a nudo fragilità che non vogliamo confessare soprattutto alla creatura che temiamo di più: noi stessi. E allora mentre salgo le rampe che portano il gruppo al punto panoramico di Monte Penna, penso che forse non aveva torto Pirandello quando diceva che indossiamo centomila maschere per celarci agli altri, timorosi di esporci come in una partita a scacchi, sempre disposti a difenderci in modo inconscio ma indubbiamente efficace. Siamo spaventati come bambini davanti a un fantasma, quando la realtà ci costringe a guardare lo specchio che restituisce il nostro stesso sguardo ed a volte ci smarriamo nella profondità di quegli occhi accusatori, perché l'orizzonte si perde dentro la nostra natura più intima e celata. “Di ciò che posso essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso.” (Uno, nessuno, centomila - L. Pirandello) Ma oggi è un altro giorno, un giorno di frizzi e lazzi, un giorno per essere bambini di cinquant'anni, un giorno da finire in compagnia e allegria come quando gli anni erano 20, con i piedi sotto la tavola, caro zio Giorgio. Oggi è il 3 giugno 2020 e si va in Toscana. Fra qualche tempo avrò dimenticato perché è così importante questa data, quindi voglio fissarla perché ha l'inebriante profumo della libertà. Tutto sommato non è tanto che manco da Badia Prataglia, il mio comune preferito all'interno del Parco. Ci sono venuto il 19 gennaio, meno di 5 mesi fa. Però in passato, quando ho trascorso periodi ancor più lunghi di assenza da tali luoghi, non era stato qualcun altro a scegliere per me. Ad inizio marzo il nostro mondo è cambiato, siamo stati costretti a chiuderci in casa convivendo con un senso di angoscia e insicurezza, preoccupati per un futuro che ovviamente non potevamo prevedere. Poi è tornata un po' di luce e siamo potuti uscire di casa e successivamente abbiamo potuto muoverci nei limiti regionali, comunque limitati come animali in gabbia. Oggi sono stati abbattuti quei limiti ed è stata autorizzata la libera circolazione. È proprio vero che non apprezzi mai abbastanza una cosa, fino a quando non la perdi o ti viene sottratta. Per queste ragioni sento la necessità di "riconquistare" la Toscana, di cavalcare il valico appenninico del Passo dei Mandrioli e godermi al 100% questi momenti di serenità. Cosa accadrà ancora, quali sfide ci attendono al varco? Nessuno può prevedere il futuro, ed è probabilmente questo senso di vulnerabilità che ci porta istintivamente a vivere in quella condizione temporale. Siamo sempre proiettati nel futuro: risparmiamo denaro, progettiamo, pianifichiamo la pensione, guardiamo al futuro dei nostri figli, pensiamo sempre alla prossima vacanza che probabilmente non faremo. Tutto questo è positivo e nessuno più di me crede nell'importanza della pianificazione e della previdenza. Sin da bambino ho sentito la necessità di garantirmi un margine di certezza, vivendo in prospettiva. Però questo atteggiamento, se spinto oltre un lecito senso si prudente saggezza, rischia di diventare una condizione costante, obbligandoci a vivere in un tempo futuro senza mai raggiungerlo. Oppure c'è chi vive nel passato, guardandosi sempre indietro. È la sindrome del "c'era una volta", una costante sensazione di dolorosa nostalgia per un tempo lasciato ed irrecuperabile. Anche il radicamento è importante, sentire le proprie origini, avere dei bei ricordi e non dimenticare tanto le cose belle quanto le esperienze meno piacevoli. Ma fissare il proprio orologio temporale sullo ieri è deleterio. Fra l'altro molto spesso questo avviene attraverso una lente deformante che ci fa apprezzare qualcosa che non abbiamo amato realmente. Culliamo soltanto il sogno effimero che quel momento archiviato nel passato sia stato bellissimo. Camminare guardando sempre indietro, inevitabilmente ci espone al pericolo procurandoci dolore. Sto pertanto cercando di trovare un equilibrio fra l'atteggiamento saggio della persona previdente e quello maturo di chi sa apprezzare la strada che ha già percorso. Perciò voglio soprattutto vivere il "qui e ora" (hic et nunc), ovvero godermi esattamente l'attimo che sto vivendo, carpendo avidamente ogni attimo di presente. Ed è con questo atteggiamento nell'animo che salgo le rampe che lasciano il paese per raggiungere Campo dell'Agio. Oggi non so bene dove andrò, so soltanto che voglio salire e faticare. Proseguo per il Passo dei Cerrini e perdo il sentiero, devastato dai mezzi cingolati dei boscaioli. Proseguo nella direzione che conosco ma non incrocio più il sentiero, giungendo sulla cima appuntita del Monte Cucco. Da qui vedo il sentiero 00 che corre a mezza costa intorno alla cima, quindi scendo e riguadagno la via smarrita riprendendo per il Passo della Crocina. È in questo punto che decido, stanto bene e sentendomi fisicamente integro, di proseguire verso La Lama, anche se so che non sarà una camminata facile. Questo decidere al momento la via, aggiornando le scelte ad ogni nuova tappa e senza sapere programmaticamente dove andrò, mi stimola ed entusiasma. In un certo senso trovo che sia l'essenza del "qui e ora". Raggiunta la valle incantata della Lama prendo una nuova decisione, optando per la salita lunga verso il Gioghetto e non quella breve degli Scalandrini. So bene che mi allontano dal punto di partenza e che a fine anello avrò molti chilometri nelle gambe, ma sto bene e voglio approfittare di questo stato di salute, almeno quanto voglio cogliere tutto ciò che può concedermi questa condizione di inebriande grazia. Sento la fatica, ma mi è amica e mi permette di entrare in contatto come me stesso e interagire empaticamente con la natura nella quale sono immerso ed accolto. Solo a Prato Penna batto in ritirata, lasciando il sentiero per la strada forestale. La saggezza mi impone la via facile, dopo che per tutto il giorno ho preso decisioni gratificanti ma probanti. Nelle ultime rampe di asfaltata che mi riportano in paese penso che, ancora una volta, sto portando a casa molto più di quanto possedevo ad inizio giornata. E soprattutto mi sento arricchito da questo nuovo desiderio di vivere intensamente nel presente, senza pagare troppo dazio allo ieri ed al domani. Oggi ho deciso di confrontarmi con un sentiero ignoto, uscendo un poco da quella zona di conforto nella quale mi sono rintanato negli ultimi anni. Mi sono accorto che sto facendo piacevoli camminate in compagnia e percorsi noti in solitaria. Oggi invece decido di spingermi un po' oltre, tornando indietro nel tempo, quando affrontavo in solitaria strade sconosciute. Ho bisogno di sbagliare, ho bisogno di perdermi, ho bisogno di confrontarmi e provare quel leggero brivido che corre lungo la schiena quando la solitudine ti costringe alla cautela massima, quando non puoi permetterti di mettere un piede in fallo perché, eventualmente, non ci saranno spalle amiche alle quali appoggiarsi. Il mio cervello cattura e cataloga ogni informazione, gli occhi sono vigili e spalancati, le orecchie attente registrano ogni singolo rumore. Sono vivo. Questa condizione mi spinge a dare il meglio di me stesso, ad usare tutti i sensi, attivando ogni muscolo e mettendo in moto ogni neurone. L'isolamento è una palestra straordinaria. Cammino nel bosco e intanto mi guardo dentro, scoprendomi e ritrovandomi. Recentemente ho sentito un esperto (termine assolutamente abusato di recente) dichiarare che l'uso dei navigatori satellitari nella viabilità ha ridotto le capacità di orientamento degli individui. In un certo senso ha atrofizzato quella parte di cervello deputata a renderci autonomi nella scelta dei percorsi e delle direzioni da prendere. Pare si stia verificando semplicemente ciò che accade ai muscoli quando ne riduciamo o cessiamo l'uso: si ridimensionano e perdono tono; in breve una semplice camminata o sollevare un peso non eccessivo possono diventare gesti quasi impossibili da compiere. Così accade con il cervello, relativamente alla capacità di orientarsi. Stiamo permettendo ad uno strumento di sostituirsi a noi, surrogando una funzione che possediamo e che non solo non dovremmo abbandonare, ma piuttosto coltivare ed esercitare regolarmente. Lo scrivo predicando bene ma razzolando male, perché anche io mi affido al GPS, tanto in auto quanto sui sentieri. A queste cose penso mentre cerco la via dopo il casale diroccato della Cella, quando smarrisco i segnavia e mi ritrovo su quello che pensavo fosse un sentiero ed invece si rivela un vicolo cieco nella foresta. Probabilmente è un canale scavato dall'acqua o un percorso battuto dal passaggio degli animali. Ancor prima del buonsenso è una voce interiore a dirmi che sono fuori strada. Poi dal fitto del bosco sale un rumore che non riesco a identificare, ma basta ad acuire i sensi. Sono vigile, sono solo, sono vivo. Il pericolo è ancora lontano, ma sento suonare delle sirene di allarme che non udivo da tempo e sono lieto di averle ascoltate ed ancor più di avere riscoperto che esistono e funzionano. Mentre salgo e raggiungo il crinale decorato di faggi, penso alla differenza che esiste fra "perdersi" e "smarrirsi". Calcando questo tappeto di foglie, protetto dall'ombra e carezzato dal vento, è inevitabile camminare e riflettere. L'atmosfera è così eterea ed irreale che il riflettere giunge istintivamente prima del camminare e mentre lascio che i piedi mi portino lungo il sentiero, mi fermo a pensare che c'è una differenza semantica e concettuale tra due termini che usiamo abitualmente come sinonimi perfettamente intercambiabili. Un caro e saggio amico mi ha insegnato che le parole hanno un valore ed un peso. Non penso che questi due termini coincidano. Trovo che lo smarrimento sia momentaneo, fortuito, casuale e comunque reversibile. Invece "perdersi" nasconde una insidia concettuale nella sua stessa etimologia. Deriva dal latino e significa "mandare in rovina". Inoltre il verbo "perdere" indica una condizione di sconfitta e rimanda un senso di inellutabilità e invariabilità della condizione. Ed anche se non per tutti questo percorso logico può avere il medesimo significato, mentre cammino in questa faggeta alta cullato da una piacevle brezza estiva, penso che nel bosco ma soprattutto nella vita, voglio accogliere con gioia lo smarrimento come momento di analisi e rinascita, ma voglio rifiutare con risolutezza la resa della perdita. Perdersi non è come smarrirsi. Accetto il momentaneo smarrimento, ma non voglio piegarmi alla sconfitta. Clicca QUI per la traccia GPS
Negli ultimi 3 mesi ho accumulato qualche chilo di troppo e tanta voglia di camminare, mai abbastanza saziata dagli insensati giri intorno a casa a quota zero. Sono serviti soltanto a catalogare ogni insignificante dettaglio del mio vicinato ed a sviluppare un sentimento di solidale empatia verso gli animali rinchiusi negli zoo. Anche se il modello è vecchio e passato di moda, la carrozzeria sgangherata e il motore in evidente affanno, la voglia di sgambare up&down è sempre più forte. Costretto dagli eventi a un digiuno forzato, ora la mia voglia di esserci e godermi tutto il bello che la natura può offrire è ancora più radicata e straripante. Scelgo pertanto un anello più impegnativo in una location classica e selvaggia: la valle di Pietrapazza. L'amico Alessandro di Faenza si unisce a me e, sentendoci in settimana per pianificare il quando e dove, gli comunico che vorrei alzare il livello. La sua laconica conferma accende la miccia: "Alziamo il livello!" Già a Poggio alla Lastra abbiamo la possibilità di vedere un branco di una dozzina di daini che bruca a pochi metri dalla strada. Raggiunto lo spettacolare starting point, ci concediamo qualche minuto per godere la vista della valle da questo punto a bassa quota, ma privilegiato. Un regista hollywoodiano non avrebbe saputo meglio collocare la chiesa che, ancora oggi, è il simbolo e l'anima della valle. Abbiamo scelto il giorno infrasettimanale in base alle previsioni meteo e questo ci ha permesso di arrivare dopo due giorni di pioggia che hanno contribuito a fare letteralmente esplodere la clorofilla. Tutto intorno è verde, un verde così intenso che se non lo vedessi con i miei occhi penserei ad un fotoritocco di cattivo gusto. Invece è tutto meravigliosamente reale. Scelgo di raggiungere la forestale alta salendo lungo il crinale di Maestà del Faggio, perché Alessandro non c'è mai stato e conosce già il sentiero che porta a Siepe dell'Orso. Inoltre abbiamo l'ambizione di fare un anello più largo e dalla Maestà del Faggio c'è il punto belvedere più privilegiato, incuneato e incastonato nel cuore della valle. La scelta si rivelerà azzeccata. Con il sorriso ebete di chi si sta godendo ogni singolo passo, attraversiamo senza sentire la fatica guadi e creste affilate, salendo fra antichi ruderi e colture abbandonate. Raggiunta la forestale Cancellino-Lama incontriamo un cerbiatto impaurito e spaesato. Cammina ancora incerto sulle lunghe zampe filiformi. La madre probabilmente lo segue con lo sguardo dal fitto della foresta. Trotterella per alcuni secondi nel nostro senso di marcia, a circa 20 metri di distanza, poi sparisce dietro una curva e non lo vediamo più. Abbiamo cercato di non intimorirlo e mi auguro possa avere ritrovato la madre. Raggiunto il Paretaio proseguiamo su strada forestale verso Casanova, senza incontrare altri animali. Ci sono tre auto parcheggiate vicino a Podere Romiceto ed il sole è troppo alto e troppo caldo perché gli ungulati indugino brucando nelle radure aperte. Ora sono certamente nel fitto del bosco a cercare refrigerio sotto le fronde degli abeti. La diversità della foresta è evidente anche agli occhi inesperti dello scrivente. Non riconosco le diverse qualità, ma ne sento il profumo intenso inspirandolo profondamente. Quanta ricchezza e quanta bellezza. Ammirato Casanova dell'Alpe, una new entry per il mio compagno di viaggio, riprendiamo il cammino lungo la discesa verso Ponte del Faggio. L'unico dubbio alla partenza era questo: visitato Casanova avremmo potuto prendere la strada breve ritornando sui nostri passi scendendo da Siepe dell'Orso. Ma Alessandro conosce già quella via e tutti e due stiamo troppo bene per cercare scorciatoie. Mi dispiace solo che dovremo fare 5 km di noiosa strada bianca per tornare all'auto, ma nel complesso la scelta è giustificata dal bel sentiero e dalla possibilità di ammirare i pratoni e le testimonianze del passato a fondo valle, fra Molino delle Cortine e Ponte del Faggio. Chiudiamo così un anello certificato dalla strumentazione digitale: 20 km percorsi senza troppa fretta e senza troppo affanno, salutati dal passaggio di un rapace ad ali spiegate e dall'attraversamento di una vipera prima e due cerve poi, quasi che la fauna locale così rappresentata voglia salutarci e rammentarci che qui, noi siamo gli ospiti e loro i legittimi proprietari di casa. Video YouTube realizzato da me e foto scattate da Alessandro Le prime parole che imparano i bambini sono "mamma" e "no". Il primo vocabolo è un meritato riconoscimento verso la donna più importante, colei che ti ha cresciuto in grembo e che ha sofferto i dolori del parto. La seconda viene appresa per emulazione, perché è la parola più ascoltata dal neonato. Per inciso, la parola "papà" (o "babbo", per chi è romagnolo DOC), non figura nemmeno nella top-ten. Viene pronunciata le prime volte verso i 14 anni, inserita nel contesto di frasi tipo: "babbo, mi dai i soldi per...". Ma questa è un'altra storia. La terza parola pronunciata dai bimbi è l'aggettivo possessivo "mio", declinato sia al maschile che al femminile. In particolare diventa importante nel momento in cui si sviluppano le prime interazioni sociali: caro fratello/sorella la mamma è mia, il gioco è mio, la pappa e mia. Tutto è mio. Io sono il centro dell'universo. Me lo ha insegnato la nonna, chi sei tu per contraddire la nonna? Questo concetto si radica profondamente negli anni della formazione e ci accompagna fino all'età adulta, rendendo fondamentali professioni come consulente, avvocato, notaio, giudice. Il ruolo di questi professionisti è quello di dirimere principalmente questioni di proprietà, perché se è vero che iniziamo a piantare la bandierina del possesso sui giocattoli, non smettiamo di farlo da adulti. Acquisti, furti, divisioni patrimoniali, atti di proprietà, passaggi di beni, condivisioni e/o contese coniugali. La lista è infinita e ruota sempre intorno al concetto di proprietà privata e personale. Tutto è mio, come il sonaglio che maldestramente mi picchiavo in testa quando stavo seduto sul seggiolone. E così, con questo senso di possesso, mi sono mosso molte volte nei boschi ed ho traslato il concetto, se pure ironicamente: le Foreste Casentinesi sono mie. Un paio di volte, quando gli amici sono andati in escursione ed io non ho potuto seguirli, ho scherzato sul fatto che gli concedevo l'accesso momentaneo, che gli affidavo le chiavi e potevano andare solo grazie al mio permesso. Il gioco della proprietà trova comunque la sua genesi nella profonda sensazione di possesso non tanto legale, ovviamente, ma piuttosto emotiva. Questo è il mio regno, questa è la mia foresta, questo è il mio luogo di rifugio. La quarantena costringe tutti gli escursionisti a non frequentare i parchi ed io mi adeguo alle disposizioni. Non appena viene allentata la morsa e viene concesso di andare in solitaria, rimanendo nei limiti regionali, non perdo occasione di recarmi nelle "mie" foreste per un facile anello infrasettimanale e scelgo come luogo di elezione Campigna, uno di quei posti che serbo con maggiore affetto nel cuore. Raggiungo il parcheggio dell'Albergo Scoiattolo, desolatamente vuoto, e provo una forte emozione mentre allaccio di nuovo gli scarponi dopo questo lungo periodo di assenza forzata. Mentre mi avvio sul sentiero, con l'incanto e lo stupore di un bambino, penso che in realtà sono trascorsi periodi molto più lunghi di assenza dai boschi nella mia vita. Ma in quel caso erano la mia volontà ed i miei impegni a tenermi lontano dalla montagna. Oggi invece vivo un senso di liberazione, perché il divieto mi è stato imposto, e mi sembra quasi di uscire dalla prigionia. Scelgo di salire verso il passo della Calla per poi imboccare il sentiero, recentemente riaperto, che porta alla strada forestale delle Cullacce. Poi rifugio Ballatoio, Villaneta e risalita a Campigna. È un anello facile, ma straordinariamente evocativo, per me una scelta perfetta per tornare ad approcciarsi alla montagna unendo lo sforzo fisico al feeling emotivo che mi lega alla foresta. Ed è mentre muovo questi primi timidi passi di uscita dalla quarantena che comprendo qualcosa che, banalmente, avrei già dovuto capire molto tempo fa: non sono le foreste ad appartenermi, ma piuttosto sono io ad appartenere loro. Il concetto di proprietà emotiva resta, ma questo periodo di lontananza mi ha permesso di capire che l'universo va specchiato. Guardo questo placido mare di foglie agitate dal vento, come onde increspate dalla corrente, ed ascolto le parole mute degli alberi che sussurrano al mio cuore: il bosco non è tuo, tu sei del bosco. E mi lascio avvolgere da questo abbraccio, felice di non possedere nulla. Video dell'escursione "Una giornata straordinariamente normale"
Ogni volta che faccio un'escursione scrivo un post. I miei post non sono mai tecnici, ma piuttosto emotivi. Scrivo per fissare le mie impressioni, i sentimenti che muovono nel mio animo la montagna, gli alberi, gli animali, il fruscio delle foglie, lo scorrere dei torrenti, il silenzio del bosco. In questi giorni di forzato isolamento e lontananza da quei luoghi cari, non dovrei scrivere un post perché non metto gli scarponi da tanto e da tanto non calco sentieri. Però questa situazione folle ed insolita mi spinge comunque a riflessioni, riflessioni che non voglio perdere, sentimenti che non voglio dimenticare quando tutto sarà finito. Soprattutto oggi che non vediamo bagliori di speranza percorrendo questo tunnel buio. E allora questa mattina mi sono svegliato con una idea in testa che ho pensato di condividere: chi va in montagna queste cose le sa.
Chi va in montagna sa che la preparazione non avviene nel momento della difficoltà, ma che inizia molto tempo prima. Ci si allena, ci si muove per gradi, si affronta un percorso alla volta, un passo alla volta. Poi quando arriva il momento della fatica vera, quando arriva il momento della difficoltà o addirittura del pericolo, si può fare affidamento sulla preparazione, una preparazione che ha preceduto di molto quel momento. Lo zaino non serve soltanto per portare i panini, piuttosto è il mezzo per avere sempre a portata di mano le cose che possono risolvere una situazione e, per fortuna in rari casi, salvarti la vita. È la mancanza di preparazione che determina la differenza fra paura e serena coscienza. Ma questo chi va in montagna lo sa. Come sa anche che la conquista della cima corrisponde a metà percorso. È banale, ma ho l'impressione che in questi giorni molti non se ne rendano conto. Sento e leggo spesso di "picco della malattia". Le persone sono ossessionate da questo picco. Alcuni sperano di averlo già superato, altri dicono che è ancora molto lontano, altri azzardano previsioni su base matematica indicando quando verrà raggiunto. Ogni volta penso che si tratta di una meta tanto effimera quanto ingannevole. Per prima cosa non esistono cartine o GPS in grado di segnalare l'esatta posizione temporale di questo picco. Potremo identificarlo con chiarezza, numeri alla mano, solo molto tempo dopo averlo sorpassato. E allora, perché darsi tanta pena per identificarlo? Inoltre questo offre l'impressione ingannevole che, una volta raggiunto, ci saremo lasciati tutto alle spalle. E invece ci sarà ancora tantissima strada da fare prima di tornare a uno status di normalità sanitaria e questo chi va in montagna lo sa. Chi va in montagna sa anche che non è buona cosa camminare con gli occhi fissi alla cima, particolarmente quando manca il fiato e le gambe vacillano. Perché la mente è il nostro muscolo più potente ed è in grado di governare tutto il corpo. Se il morale è alto, il fisico è in grado di realizzare più di quanto crediamo di poter fare. Guardare la cima, soprattutto quando è così lontana da non potere essere scorta, non è mai una buona idea. È meglio camminare a testa bassa e mettere un piede avanti all'altro. Domandarsi incessantemente quando finirà tutto questo e dichiararsi insofferenti per ogni ora di isolamente a cosa giova? Cui prodest, dicevano i latini. E questo chi va in montagna lo sa. Infine chi va in montagna sa che la cima si conquista con le gambe, non con le chiacchiere. Organizzazione, silenzio, abnegazione e rispetto delle regole. È una ricetta semplice. Se manca un'ora alla cima e mi siedo su un masso per un'ora, non arrivo di certo in vetta. In queste ore sento dire con illusoria speranza che i cinesi ce l'hanno fatta, che hanno sconfitto il virus, che ci hanno messo circa tre mesi, quindi anche noi possiamo iniziare il conto alla rovescia. Ma i cinesi hanno agito, hanno attuato delle misure di contenimento serie, hanno rispettato la quarantena ed eventualmente costretto le persone a casa. Violando i decreti, trovando scuse per uscire di casa e pensando di essere al di sopra delle leggi, non si va da nessuna parte. È come rimanere fermi seduti su un sasso aspettando che sia la cima ad arrivare da noi. Ma tutto questo, chi va in montagna lo sa. Come In fuga dagli isterismi e dalle contraddizioni del corona virus, salutiamo la città per recarci presso le note cime di Sasso Simone e Simoncello. Non amo particolarmente camminare in questa parte del territorio e non nascondo il mio scarso apprezzamento agli amici del gruppo. Valuto fino all'ultimo minuto l'ipotesi di andare in solitaria nei miei amati boschi, ma due fattori influenzano la mia scelta: per prima cosa il piacere di condividere la giornata in piacevole compagnia e poi perché non sono mai salito sulla cima del Simoncello. Il percorso inizia dal campeggio di Carpegna, alle pendici dell'omonimo monte. L'aria è pungente ed il cielo parzialmente coperto da nubi, ma le previsioni non ci fanno temere pioggia. L'acqua nelle pozzanghere è gelata ed il terreno è molto allentato. Camminiamo in precario equilibrio nel fango, attraversando una landa piuttosto desolata. Intorno a noi pochissimi alberi ed arbusti in prevalenza, che in parte mi rammentano la Norvegia, ma molto meno rigogliosa. Il panorama è piuttosto anonimo, quasi triste, e se non fosse per le chiacchiere ed il piacere di camminare in gruppo, attraverserei con un certo disappunto questa spoglia terra senza fascino. Giunti alla base del Simone ci rinfranca il piacere di camminare in mezzo alla vegetazione, fra rocce leggermente ammantate di neve. In breve raggiungiamo la sella che divide i due massi ed attacchiamo la cima. Giorgio rimane saggiamente ad attenderci con Bella, il suo labrador che non potrebbe mai salire l'ultimo strappo, decisamente esposto. Da questo privilegiato punto panoramico ammiriamo il fondo valle il Sasso Simone che raggiungeremo di lì a poco. Sarà l'assenza di vegetazione e l'abbondanza di rocce, ma a me questo territorio mette tristezza. E mentre salgo in solitudine tra i massi precipitati dal Sasso Simone, in un paesaggio quasi lunare, la mia mente vaga dove trovano spazio le riflessioni. I piedi nel fango diventano sempre più pesanti e penso a chi nella sua vita ha percorso strade piene di fango, fango fisico e soprattutto morale. Penso a chi è costretto a muoversi nella vita come noi che oggi arranchiamo per poche ore su questi disagevoli sentieri. Penso al fango che nella vita a volte lo si calpesta, a volte ti viene gettato addosso. Penso al fango come al freno agli ideali, alle aspirazioni ed ai desideri. Poi mi volto verso il Sasso Simone e improvvisamente mi tornano alla mente le parole della poetessa bulgara Blaga Dimitrova, come un pungo allo stomaco, come un grido libero urlato al cielo, che spezza le catene del fango morale e penso alla capacità resiliente che possiede il genere umano di volgere a proprio favore anche gli eventi più avversi. "Nessuna paura che mi calpestino. Calpestata, l'erba diventa un sentiero." Durante il bellissimo weekend della recente Reunion Rex, io e Franz abbiamo gettato le basi per il trekking odierno. C'è stato il tentativo di coinvolgere qualche altro amico, ma gli acciacchi, gli impegni familiari e la poca passione, hanno tenuto tutti lontano dalle Foreste Cadentinesi. Non me e Francesco, gli unici due veri amanti della montagna. Franz è un vero atleta, che ha percorso chilometri e chilometri di sentieri di corsa nelle eco-maratone, non un pigro camminatore come il sottoscritto, ma scende volentieri al mio livello pur di trascorrere una giornata insieme, come accadeva tanto tempo fa quando avevamo meno soldi e meno preoccupazioni. È veramente da tantissimo tempo che non abbiamo la possibilità di chiacchierare indisturbati. In queste decadi ne è passata tanta di acqua sotto i ponti. Sono curioso di conoscere i suoi percorsi e mi fa piacere condividere con lui le mie vicende, quelle più lieti ed anche quelle meno piacevoli. E così, mentre i nostri scarponi calcano la terra, le nostre parole riassumono anni e mi tornano alla mente le parole di quel Francesco Guccini che abbiamo cantato e mai smesso di amare, quando nella canzone "Incontro" recita: "Povera amica che narravi dieci anni in poche frasi ed io i miei in un solo saluto". Mi rendo conto che è così, alla fine si narra la propria vita riducendola a poche frasi, forse pensando che non serve un fiume di parole per rievocare qualcosa a chi non lo ha vissuto, come fosse fiato sprecato. Però Francesco è più bravo di me, non solo nel camminare, ma anche nell'ascoltare e mi lascia interamente il bastone del comando in questa giornata fresca e soleggiata, mentre lo conduco su una via che conosco molto bene, ma che per lui è inedita: da Lago verso Pian del Grado, passando per le ripe toscane e rientro lungo il crinale del Castello di Corniolo. Mi lascia parlare Francesco, con quel suo sorriso divertito da ragazzino, mentre mi arrampico arditamente con le parole cercando di spiegargli le mie passioni e i miei studi cercando di portarlo con entusiasmo nel mio mondo astratto ed onirico, che spaventa i più. Ogni tanto alziamo gli occhi dal sentiero per ammirare gli scorci fiabeschi della valle del Bidente delle Celle o il fitto bosco che conduce a La Fossa. Proprio mentre sto per aprire il cancello, spiegando a Francesco che tale premura è imposta ai proprietari della comunità montana dagli animali che devastano il prato e l'orto incustoditi, è lui a notare una regale presenza sfuggita al mio sguardo: un maschio adulto di cervo che rumina all'interno dell'orto recintato. Dopo lo stupore iniziale estraiamo i cellulari per fare video e foto. Fortuna vuole che il cervo, assolutamente confidente, non solo non si spaventa, ma ci viene quasi incontro camminando serenamente in tondo all'interno dell'area circoscritta dal filo spinato. Dopo un primo giro, non pago, ne fa un secondo e poi, mentre ipotizzo che forse è rimasto bloccato all'interno della recinzione, spicca un balzo insospettabile considerando l'enorme stazza, e si infila nel fitto del bosco. Stupiti, sorpresi e felici riprendiamo il sentiero verso Pian del Grado ed io riprendo il mio fuoco di fila di parole e racconti, per nulla pago ed incurante della difficoltà del malcapitato compagno di giornata. Come un ostaggio è costretto ad ascoltare il mio cianciare, senza appelli e vie di fuga. Giunti a Pian del Grado mi placo un poco, per permettere a Francesco di ammirare quello che amo definire "un presepe nel bosco". Lungo la carrozzabile incontriamo qualche altro viandante e al Poderone c'è il solito viavai di auto e turisti venuti a godere i piaceri della tavola del noto agriturismo. È rimasto solo l'ultimo sforzo per Francesco, il crinale che porta al castello e poi la ripida discesa verso il punto di partenza, dove potrà riprendere l'auto e fuggire da questo goffo fauno incantatore. Nei pochi istanti di fiato che gli concedo, come un pugile alle corde, Francesco riesce a dirmi in poche parole sensate, molto più di quanto io non abbia detto in ore di chiacchiere da comare. Gli chiedo delle sue corse campestri e, provocatoriamente ed ironicamente, domando quante ne ha vinte, sapendo già che è impossibile aggiudicarsi queste gare. La sua risposta lapidaria racchiude un universo: "Contro gli altri non ne ho vinta nessuna, contro me stesso ne ho vinte parecchie". Dono della sintesi batte cammin ciarliero 1 a 0. |
Massimo
Massimo è sposato con Roberta ed è padre di 2 figli. Lavora tutti i giorni al computer e nel tempo libero scappa in montagna, il suo spazio libero fra foglie e nuvole. Archives
Agosto 2020
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