Dopo dieci giorni di mare e strade polverose arse dal sole meridionale, torno con grande piacere in quella che considero la mia casa adottiva. Oggi Gabriele propone il più classico degli anelli che porta alla Foresta della Lama ed io accetto con maggiore entusiasmo perché ho un legame particolare con questo luogo. La mia prima volta nella Foresta risale infatti a una gita scolastica fatta all'età di 11 anni, un giorno benedetto nel quale arrivammo scortati dalla Forestale nello stesso posto dove oggi sosteremo per breve tempo. Certi profumi evocano ricordi e certi episodi segnano un'esistenza, formano un carattere, contribuiscono a fare diventare uomo un bambino e plasmano l'essenza di quell'uomo. La foresta della Lama è per me uno di quei luoghi e trattiene fra le foglie dei suoi alberi millenari il dono magico di farmi ritornare indietro nel tempo e al tempo stesso farmi viaggare a volo d'aquila sul mio futuro. Mentre camminiamo verso il Gioghetto e prendiamo la lunga discesa che porta alla Lama, rifletto sull'origine di questi singolari toponimi. Sono vinto dal fascino della scelta che un tempo ha portato a stabilire il nome di un paese, di una località, di un fiume, di una fonte. In molti casi questo è accaduto così tanto indietro nel tempo che non esiste più nessuno che ne conservi memoria. Molte volte il toponimo è attribuito a persone o famiglie che hanno gestito o vissuto in quella zona. Nelle foreste casentinesi questo spesso accade per i piccoli fiumi, detti "fossi", che probabilmente segnavano i confini o erano affidati in gestione a gruppi familiari: Altari, Pianelli, Massoni, forse anche quello stesso fosso degli Scalandrini che oggi costeggeremo in ripida salita. Poi ci sono quelli affascinanti attribuiti agli animali: Sentiero del lupo, Poggio alle capre, Cavalla pazza, Siepe dell'orso, Crinale della vacca. Essendo questa una zona boschiva, da sempre sfruttata per l'approvvigionamento di legname di qualità, è facile intuire l'origine di alcuni toponimi: Seghettina, Campo alla Sega, La via dei Legni. Anche i termini Giogana e Gioghetto riportano al tempo nel quale i buoi venivano "aggiogati" per il trasporto del legname a valle. Ma anche in questo caso il toponimo dei toponimi è: la Lama. Questi nomi mi fanno pensare a quando gli abitanti, armati di asce e seghe, venivano in questi luoghi non per fare rilassanti passeggiate, ma per sfruttare la natura e portare sulle loro povere tavole un pezzo di pane sofferto e sudato. Comprendo l'esigenza di procurare materie prime, ma pare che un tempo non ci fosse particolare riguardo sul cosa e sul come. Le foreste venivano semplicemente saccheggiate, senza troppi scrupoli per l'etica ecologista che formalmente nemmeno esisteva. Nelle vecchie immagini di queste zone l'immagine comune è una costante: crinali spogli e versanti denudati, quasi violentati da un uomo che, senza rendersene conto, non stava abbattendo gli alberi ma se' stesso. Il toponimo Foresta della Lama cela una ardita contraddizione: foresta da abbattere con una lama. Ma le cose sono cambiate? I boscaioli sono scesi a valle per popolare le città della pianura e la montagna per lungo tempo è stata abbandonata. L'uomo vi è tornato solo di recente con una rinnovata coscienza. Gli alberi sono riscresciuti e queste zone sono state protette da Leggi mirate a tutelare l'Ambiente come res-publica di grande valore. Mi guardo intorno e penso, con rammarico, che però tutto sommato nulla è cambiato: continuiamo ad essere il peggior virus del pianeta. La nostra attenzione si è solo spostata verso altri luoghi da maltrattare e violentare. Non abbiamo perso la vocazione distruttiva ed autolesionista dei nostri padri, che almeno avevano l'attenuante generica dell'ignoranza. Mentre risaliamo il fosso degli Scalandrini, Gabriele giustamente si stupisce ed indigna per l'alto numero di fazzoletti lasciati lungo il sentiero, a testimonianza del fatto che la mamma dei cretini è sempre gravida, in ogni epoca, e che la Foresta della Lama resta per alcuni un luogo da maltrattare, come se non fosse un patrimonio di tutti.
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Quando lasciamo Rimini, in giro per le strade ci sono solo metronotte e spazzini. La partenza anticipata è costretta dalla meta odierna, i lontani Monti Sibillini. Mi sono un po' documentato e mentre ci avviciniamo alla meta tra frizzi e lazzi, nonostante il poco sonno infatti il gruppo è già sù di tono, penso al singolare legame fra l'esperienza odierna e le riflessioni del trekking della settimana precedente. Solo sette giorni fa scrivevo del viaggio interiore e di come sia importante, per lo scrivente, rendere l'esperienza della montagna anche un viaggio di analisi consapevole e del fatto che fuori dai templi dedicati al dio Apollo era affissa una targa che invitava i fedeli a conoscere se stessi. Oggi stiamo andando nel regno della Regina Sibilla, figura mitologica resa nota da alcuni romanzi cavallereschi. Non stiamo salendo sul Monte Sibilla verso la grotta che lo rende famoso, ma siamo comunque nel parco che deve il suo nome al monte ed al mito della Sibilla di Norcia, le cui peculiarità la accomunavano ad altre e forse più note sibille. "Là, sovra i gioghi dell'Appennin selvaggio, fra l'erte rupi una caverna appar: vegliano le sirene quel faraggio, fremono i canti e fanno delirar." (dal poema drammatico Sibilla, di Giulio Aristide Sartorio) Le sibille erano sacerdotesse che dispensavano saggezza e consigli di vita soltanto ai fedeli che erano disposti ad intraprendere il viaggio verso le loro dimore che erano immancabilmente isolate, lontane e spesso ubicate su alti monti o comunque in luoghi impervi. Tale viaggio era sempre lungo, difficile, tortuoso ed a volte rischioso. Il loro responso raramente era chiaro ma più spesso criptato, enigmatico e di difficile interpretazione, tanto che al giorno d'oggi l'aggettivo sibillino è sinonimo di ambiguità. Cito testualmente dal sito "Una parola al giorno": "Ibis redibis non morieris in bello" è il responso più classico della sibilla interrogata per un vaticinio. "Andrai, tornerai, non morirai in guerra" "Andrai, non tornerai, morirai in guerra": a seconda della punteggiatura, il "non" in latino può essere riferito al tornare o al morire. Così, un'affermazione sibillina, un discorso sibillino ha queste caratteristiche di tortuosità, di difficoltà interpretative, di oscurità e doppiezza. Trovo che sia un gioco semantico splendidamente ironico. Mentre lasciamo il rifugio del Fargno salendo verso Pizzo Tre Vescovi, penso sorridendo quanto sia stimolante il contrasto fra la cultura antica e quella moderna. I nostri padri per ottenere conoscenza erano disposti a viaggiare lungamente su cammini scomodi e rischiosi, per ottenere una risposta che, secondo i nostri canoni, non poteva essere considerata tale. La ricerca della conoscenza prevedeva caratteristiche che oggi abbiamo smarrito: pazienza, sacrificio e spirito di analisi. Gli uomini antichi non consideravano il sapere un dono dovuto di facile e chiaro accesso, ma una conquista per la quale si doveva essere disposti a pagare un prezzo talvolta anche troppo alto. Scendiamo dal pizzo ed ammiriamo con rispetto la cresta affilata che ci porterà sulla vetta di Pizzo Berro, seconda scalata odierna. Si tratta indubbiamente del tratto panoramico più apprezzabile, anche se oggi una nube bassa decide di celare ai nostri occhi la vista delle cime del Vettore, del Redentore e del già citato Monte Sibilla. Davanti a noi, apparentemente vicino, il crinale che sale verso la punta del Monte Priora, obnubilata come un Olimpo. Mentre salgo e giungo alla croce, ultimo ed affaticato, torno a riflettere sul concetto di viaggio e di conquista, apprezzando il piacere masochista che prova colui che è disposto a pagare il prezzo della conoscenza. Oggi abbiamo smarrito questa capacità e preferiamo le scorciatoie interrogando Google ed Alexa per quesiti di poco conto, risparmiandoci la fatica delle grandi risposte esistenziali, quelle che un tempo i nostri padri rivolgevano con grande sacrifico alle sibille che dimoravano nelle grotte su monti alti. Siamo diventati così bravi a risparmiare e a semplificare che non abbiamo solo smarrito il piacere della conquista, ma addirittura quali sono le domande importanti. Nella cultura superficiale e minimalista siamo diventati così bravi a togliere che abbiamo tolto anche l'essenziale. Qualche volta less is more ma altre, semplicemente, less is less. |
Massimo
Massimo è sposato con Roberta ed è padre di 2 figli. Lavora tutti i giorni al computer e nel tempo libero scappa in montagna, il suo spazio libero fra foglie e nuvole. Archives
Agosto 2020
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