Ci sono giri da "ti ricordi...", ci sono giri che ti entrano nell'anima, ci sono invece giri dei quali l'unica cosa che ti ricordi è che non ti ricordi niente. Poi ci sono dei giri, e sono davvero pochi, il cui racconto può solo iniziare con le parole "quella volta che...", una frase preambolo che anticipa un'esperienza indimenticabile, un racconto che si ammanta di leggenda come il "c'era una volta" che innesca le favole più belle. Questo per me è certamente uno di quei giri. Quando Gabriele propone un anello nella foresta di Badia Prataglia mi affretto ad accettare il suo invito. Ci sono stato mille volte ma spero di tornarci altre mille perché per me quella foresta è come un grembo materno che non smette mai di cullarmi e rigenerarmi. Mente sto per uscire inizia una uggiosa pioggerellina autunnale anche se siamo in primavera, ma pare che tutti sappiano che è primavera a parte la primavera stessa. L'animo randagio (e le favorevoli previsioni meteo) ci impongono comunque una partenza in condizioni poco bene auguranti. Mentre allacciamo gli scarponi a Badia Prataglia ci accorgiamo che il meteo ripagherà il nostro coraggio: sole e bel tempo ci accompagneranno per tutto l'anello. Iniziamo la irta salita verso Campo dell'Agio con il passo di chi ha appena iniziato a camminare e vuole mettersi alle spalle civiltà e pensieri. Almeno questo vale per il sottoscritto, non per i miei compagni di viaggio che parlano di piani pensionistici e dichiarazioni dei redditi. Ma siamo all'ombra del caseggiato di Badia e la foresta deve ancora compiere la sua magia, quella che ci fa dimenticare per un giorno di essere homus-impiegatus per trasformarci in impavidi homus-silvestris dominatori dei boschi, governatori di fauni e fate, ospiti di questa natura sorniona che tollera paziente il nostro indiscreto passaggio. Oggi siamo in buona compagnia: a parte i soliti trekkers e bikers si aggiunge alla popolazione del week-end una nuova specie, i runners. Queste foreste ospiteranno, dopo l'indiscreta carovana del Giro d'Italia, una gara di corsa campestre denominata arditamente "Trail Sacred Forest" il 9 e 10 giugno prossimi, date che mi affretto a segnare sul calendario per evitare di trovarmi sul posto come spettatore di questo scempio. Profanare una foresta sacra correndovi in tutina fosforescente mi pare una stonatura e una contraddizione in termini. Alle mie orecchie "Trail Sacred Forest" ha lo stesso suono dissonante e cacofonico de "La settimana del buddista incazzato". Sto orgogliosamente diventando un vecchio brontolone. Incuranti della fatica e degli uomini in tutina saliamo fino a incrociare la via delle vie, quello 00 che non tradisce mai la mia ammirazione che più volte pronuncio ad alta voce per questo percorso e per questi boschi dei quali non mi stancherò mai. Quando arriviamo al poggio della Lombardona gli alberi si spostano per lasciarci ammirare due valli al prezzo di una ed io mi riempio gli occhi di incanto e stupore per questa creazione dipinta dal più grande dei pittori. È una tavolozza di verde, marrone, bianco e blu che sfumano in mille tonalità senza soluzione di monotonia. Pronuncio una muta preghiera e seguo i compagni che si sono già tuffati verso il passo dei Mandrioli. Le sorprese non sono finite. Dal passo iniziamo la discesa verso Badia lungo una via sconosciuta a tutti noi, quel sentiero GEA che ha opportunamente scelto il Presidente, guadagnadosi con questa azzeccata decisione il mio voto alle prossime elezioni sociali. Dopo avere detto più volte che "lo 00 non si batte" mi ritrovo a contestare me stesso mentre cammino lungo il sentiero che segue un fosso senza nome. È un luogo che mi toglie il fiato per la sua serena bellezza, dove tutto trasmette armonia e leggerezza. Sugli alberi i rami sembrano giocare fra loro intrecciandosi sotto lo sguardo paterno di tronchi imponenti. Le foglie nascondono uccelli che intonano una melodia fatta solo di note amiche. Lungo il fosso non vedo acqua che scorre, ma gocce che si rincorrono festanti saltando e rimbalzando. E tutto questo senza avere fatto uso di sostanze stupefacenti. La segheria che incontriamo a fine sentiero è il più brutale dei risvegli, sembra un mostro che inghiotte alberi e incantesimi. La strada alfaltata che ci riporta in paese è una ferita grigia in mezzo a un percorso impeccabile, ha il sapore aspro di uno schiaffo nel bel mezzo di un sogno. Ma la foresta sembra ascoltare il mio lamento e decide di restituirci una fetta di gioia. Prima passa sopra il nostro capo un rapace che ammiriamo per alcuni secondi interminabili e, rapiti dall'incanto, non abbiamo orecchie per ascoltare il suo annuncio. È un messaggero alato e ci sta avvisando che a pochi metri da noi bruca placido il re del bosco che oggi, dopo tanta ricerca e chilometri percorsi invano, ha deciso di attenderci in bella mostra per insegnarci l'ennesima lezione della montagna, facendo sue le ispirate parole del poeta messicano Amado Vervo: "Perché aspetti con impazienza le cose? Se sono inutili per la tua vita, inutile è anche aspettarle. Se sono necessarie, loro verranno e verranno nel momento giusto." Il dovizioso reportage fotografico di Gabriele
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Massimo
Massimo è sposato con Roberta ed è padre di 2 figli. Lavora tutti i giorni al computer e nel tempo libero scappa in montagna, il suo spazio libero fra foglie e nuvole. Archives
Agosto 2020
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