Dopo il fallimento di Pasqua, a breve distanza temporale, ne aggiungo un'altro al ristretto novero delle escursioni incompiute. Questa volta però la colpa non è attribuibile alla mancanza di fiato, piuttosto al maltempo che smorza i nostri entusiasmi a metà tragitto.
L'amico Alessandro non conosce le Foreste Casentinesi e così, quando mi annuncia che vorrebbe fare un trekking in zona ed è a caccia di una guida, mi offro per accompagnare lui e i suoi amici. Desiderano vedere l'eremo di Camaldoli e per me si tratta di un invito a nozze. Non cerco scusa migliore per tornare in quei boschi che considero la mia seconda casa. Le previsioni del tempo ci sono amiche e poco prima delle 10 iniziamo la ripida salita che porta a rifugio Cotozzo. È primavera e queste montagne hanno raccolto riserve idriche durante tutto il periodo invernale. Un manto bianco si è depositato lungamente su queste cime, penetrando a fondo nella terra sino a raggiungere le antiche falde e oggi ogni corso d'acqua gorgoglia e borbotta. Saliamo in mezzo alla foresta millenaria ed io mi guardo intorno ammirando il ciclo della vita: siamo circondati da alberi vivi, ma anche da tantissimi morti, piegati dalla furia del vento e delle tempeste. La loro morte è vita. Adagiati lungo il pendio come soldati freddati in trincea macerano lentamente alimentando il terreno, rendendolo fertile e ricco di quell'humus che permette al bosco di rifiorire da sé stesso. Al Cotozzo incrociamo altri viandanti, fra i quali una simpatica coppia di camminatori tedeschi che ha in programma una lunga traversata fino ad Assisi. Proseguiamo fino a Poggio Tre Confini e la foresta cambia davanti ai nostri occhi. Il marrone, il verde e i toni più cupi dell'abetaia bassa diventano beige e bianco mentre attraversiamo la rigogliosa faggeta che domina il crinale spazzato dal vento. Dovremmo entrare nella luce dei colori nuovi nel punto di maggior quota nelle ore meridiane, ma la foresta ci riserba una delle sue nuove sorprese: il cielo cambia e si oscura, in pochi attimi siamo avvolti da nuvole basse e nebbia fitta. Al Poggio il cielo è scomparso e le nubi hanno inghiottito le cime dei faggi. Scendiamo e non troviamo più Prato Penna, nascosto da un manto grigio, umido e denso. Trovo bellissimo come si possa ammirare il ciclo della vita in questi luoghi che solo in parte l'uomo riesce inopportunamente a profanare. C'è un che di inafferrabile e ancestrale nel modo in cui la foresta rinnova se stessa, rendendomi uno spettatore passivo e muto; a volte cammino in silenzio per ascoltare i suoni del bosco, ma anche per rispettare quel regno che mi ospita e nel quale mi muovo col passo del viandante inopportuno. Un cartello ci invita al silenzio e al rispetto di questi luoghi sacri, dove gli uomini da secoli hanno incastonato il loro scrigno di fede e devozione. L'eremo è parte della foresta, l'eremo è la foresta. La cinta muraria ne custodisce e serba il cuore, un cuore che da secoli batte con discreta costanza, un esempio perfetto di serena convivenza fra uomo e natura, quando nella natura l'uomo incontra Dio. All'eremo l'acqua è nuovamente protagonista, questa volta però non scorre a terra ma cade dal cielo. È uno pioggerellina leggera ma battente che ci costringe a una ritirata nella foresteria. Finito il pasto il cielo è ancora coperto e il gruppo non se la sente di sfidare la sorte proseguendo l'anello programmato. Riluttante riconduco gli amici verso Camaldoli, non senza avere prima ammirato la Porta Speciosa, dove non a caso i monaci hanno riprodotto nei simboli quei richiami alla vita e alla morte che hanno appreso vivendo nel fitto del bosco, simboli contrapposti e conviventi: l'albero cavo e il tronco sano, il teschio e l'uovo, il cranio e il gufo. Giunti al borgo ritroviamo sole e desiderio di camminare, quindi accompagno il gruppo al cospetto di uno dei signori di queste foreste: castagno Miraglia. Davanti a questo albero antico, mentre gli amici scattano foto, non posso fare a meno di ritrovare in lui gli elementi di richiamo e alternanza di questa insolita giornata primaverile: il castagno è in sé sia morto che vivo, un albero spaccato e contorto, piegato da secoli di lotte e apparentemente privo di linfa vitale, una pianta che non produce più frutto ma dal cui tronco però rinascono rami nuovi. Da solo sembra essere un monumento silente, un messaggero senza voce che dichiara agli uomini che vita e morte sono una bugia, i vertici opposti e cangianti di questa altalena oscillante che ondeggia appesa a un perno immutabile che chiamiamo esistenza.
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Massimo
Massimo è sposato con Roberta ed è padre di 2 figli. Lavora tutti i giorni al computer e nel tempo libero scappa in montagna, il suo spazio libero fra foglie e nuvole. Archives
Agosto 2020
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