Il 25 aprile non esiste più, è soltanto un giorno qualsiasi del mese fra il 24 e il 26. Il 25 aprile vale qualcosa solo per quelli che sono nati quel giorno, così almeno festeggiano il compleanno. Per tutti gli altri è solo un comodo giorno di festa, una pausa dal lavoro che se sei fortunato puoi attaccare a un festivo e farti un bel ponte di vacanza. Per tutti, anche per me, non voglio fare l'ipocrita. Non è che me ne vada in piazza con il fazzoletto rosso al collo sventolando il tricolore camminando a braccetto con qualche anziano superstite partigiano. Però oggi, mentre cammino sui passi di quei giovani che hanno deciso di sacrificare la loro vita per permettermi di vivere in un paese sbagliato, ma tutto sommato libero, mi domando come abbiamo potuto tutti dimenticare quello che è accaduto solo pochi decenni fa. E soprattutto come abbiamo potuto dimenticare gli ideali nobili che hanno mosso i passi di quei ragazzi e diventare un paese di corrotti, menefreghisti, individualisti. Certo, in testa a questo corteo poco decoroso ci sono i nostri governanti, ma subito dietro ci sono anche io insieme al resto degli italiani, che rubo poco solo perché non ho, come i politici, la possibilità di rubare molto. Oggi in coppia con Alessandro salgo la sterrata che da Biserno sale verso San Paolo e mentre cammino scompaiono i colori ed il mondo diventa bianco e nero, come in un vecchio film di guerra. Vedo scarpe malandate e rattoppate alla meglio, sporche di terra, abiti da contadini diventati uniformi militari e facce pulite. Vedo ciuffi ribelli che mascherano sguardi carichi di speranza, ostinazione e caparbietà. Salgo con il mio abbigliamento tecnico leggero al fianco di truppe da assalto tedesche formate da ragazzi altrettanto giovani con facce altrettanto pulite e sguardi altrettanto determinati. L'unica differenza è che i partigiani italiani hanno capelli neri ed i militari tedeschi capelli biondi, per il resto non potrei distinguerli. Salgono con i loro scarponi pesanti, appesantiti da zaini militari ed armamentario bellico. Trascinano con loro un fucile che probabilmente hanno imparato ad usare da poco e contro voglia. Probabilmente se potessero lo usarebbero solo per andare a caccia di cinghiali o lo scambierebbero con un badile per fermarsi a lavorare nel podere di Poggio Collina, dove troviamo il casale in restauro e veniamo accolti da alcuni daini che brucano sul prato antistante. Continuo a camminare in questo mondo in bianco e nero ascoltando comandi in una lingua che non conosco ed ho ancora nelle orecchie il suono degli spari di Biserno: all'imbocco del sentiero un manipolo di partigiani ha tentato di rallentare l'avanzata tedesca, ma sono stati falciati come grano maturo. Ma non sono morti, perché il grano quando muore non muore ma dà frutto, quindi risorge a nuova vita. Il loro sacrificio non è stato vano, infatti. Hanno rallentato la marcia verso San Paolo e messo in salvo altri partigiani che andranno a combattere la loro guerra di liberazione. Arrivati a Ronco dei Preti i giovani militi tedeschi vedono per la prima volta l'alpeggio e non vedono un obiettivo militare. Probabilmente pensano solo quanto sia bello ed a quanto sia simile a casa loro. Probabilmente non vorrebbero guastarne la quiete con il fragore dei loro fucili. Piuttosto vorrebbero gettarli a terra, togliersi i vestiti pesanti e stendersi in canottiera sul pratone. Ma non possono perché sono venuti a suonare il loro concerto di morte al soldo di maestri d'orchestra meno pacifisti. Contro la loro volontà sparano al casale, lo distruggono per scongiurare il ritorno dei partigiani e poi, obbedendo ad un comando ancor meno sensato, se la prendono anche con la chiesa poco distante, perché l'odio è una belva impossibile da sfamare. Mi allontano dai ruderi ed il mondo in bianco e nero torna ad essere a colori, perché il verde di San Paolo non può essere spento. Il cielo azzurro è solcato da poche nubi. La primavera è arrivata in ritardo ma oggi si respira ovunque. Gli uccelli lo sanno e lo celebrano con mille note. Nell'aria si sente l'odore di qualcosa che inizialmente non riesco a identificare. Forse sono i pollini dei giovani fiori? Forse è l'erba nuova che aspetta di essere brucata da daini? Poi lo riconosco, è un odore più lieve, più soave, più antico e più sconosciuto: è l'odore della pace. Ed è in quel momento che vedo uscire dai ruderi dell'antico casale due fantasmi. Sono due ragazzi giovani, hanno l'età di mio figlio. Uno è vestito da contadino ed ha un ciuffo ribelle di capelli neri, l'altro una divisa verde militare slacciata sul petto ed i capelli corti biondi, quasi bianchi. Parlano, sorridono e camminano fianco a fianco verso un posto che chiamano Libertà.
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Avevo ricevuto l'immancabile invito di Gabriele ma non ero certo di riuscire, quindi fino all'ultimo non confermo la mia presenza. Poi la situazione si sblocca e non rinuncio all'escursione randagia. Esco da un lungo letargo ed ho davanti a me la prospettiva di un lungo trekking di 5 giorni sulle Alpi in agosto, quindi sto intensificando la preparazione e colgo al volo l'opportunità offertami. Nel lunghi mesi invernali di ozio forzato ho maturato un fisico da campionato nazionale di castelli di sabbia ed oggi pagherò un caro dazio. Gabriele ha scelto un anello non troppo lungo all'attacco di due cime ed a fine giro ci ritroveremo con 1400 metri dislivello complessivo sulle gambe. Le previsioni sono confermate ed il cielo è completamente sgombro. Temo un po' il caldo ma la giornata è comunque fresca e ventilata, tempo ideale per questo spavaldo hike. La prima conquista di giornata è il Monte Le Gronde (1373 metri slm). Le gambe sono fresche e tutti salgono senza troppo affanno. Anche se arrivo sulla cima in coda alla fila sto bene. La vista è bellissima ed ammiriamo da terra eugubina le cime del Nerone e del Catria, tanto amate dagli amici delle PR. Da questa vetta minore guardiamo negli occhi la vera sfida odierna, quel Monte Cucco che dall'alto dei suoi ragguardevoli 1566 sembra attenderci come un gigante dormiente. Iniziamo così una lunga discesa attraverso la foresta per sbucare a Pian delle Macinare, che immagino in estate venga invasa da vocianti comitive di gitanti domenicali. Io guardo in alto e scruto pensieroso la cima del Monte, che da qui risulta essere particolarmente lontana. Ci lasciamo alle spalle il rifugio ed il pratone per imboccare il sentiero che aggira completamente il masso. SI tratta di una manovra di accerchiamento che serve a rendere meno difficile la salita, ma che ci impone una lunga discesa verso il guado di Fonte Fredda in un punto depresso a 950 metri slm. Da questo punto in poi abbandoniamo una bellissima foresta, all'altezza dell'amato Casentino, per iniziare la lunga salita che per prati scoperti ci porterà fino alla cima. Fino alla forestale alla base dell'ultimo strappo salgo senza troppo affanno, ma da questo punto in poi incomincio a perdere il contatto con il gruppo. Guida la fila Claudio nelle vesti di Legolas mentre io arranco come Gimli sbuffando e trascinando la mia culatta. La salita si fa dura all'imbocco dell'ultimo strappo, dopo che abbiamo incrociato un altro gruppo di 4 escursionisti che hanno appena percorso al contrario la nostra via. Il sentiero è completamente scoperto e ventoso, quindi mi fermo per fissare allo zaino il cappello a larga falda che altrimenti perderei. Quando alzo gli occhi i tre amici sono già puntini lontani. Riparto con il mio passo caracollante e li raggiungo stremato alla croce di ferro, per scoprire che è stata eretta da dei malati di mente, infatti non indica la cima come tutte le croci poste in vetta ai monti di tutto il pianeta, ma un dosso minore. Evidentemente la fede dei buontemponi che l'hanno eretta si è esaurita durante la salita e, arrivati su questo dosso, hanno alzato gli occhi e vedendo la cima ancora lontana, non hanno trovato la forza di metterla dove si erano posti in obiettivo di farlo e, pur di non riportarla a fondo valle, hanno deciso di piantarla in questo punto insensato ed anonimo. Questa almeno è la mia disamina. La cima del Monte Cucco infatti, se dalla piana sottostante pare disegnata da un bambino con la sua sommità lineare e tradizionalmente parabolica, in realtà percorsa a piedi risulta invece essere stata disegnata dal Padre Eterno in un giorno nel quale era in vena di scherzi, infatti si arriva in cima saltellando su balze irregolari che offrono sempre l'idea illusoria di essere arrivati senza esserlo realmente. Dalla nominata croce alla vetta inizia infatti la mia Via Crucis con tre canoniche soste a riprendere fiato, immancabilmente immortalate dall'impietoso Gabriele, il quale rivenderà la terza foto al Duomo di Torino dove verrà esposta in una teca, non per i fedeli ma per il pubblico ludibrio. I muscoli della coscia sinistra diventano duri come la pietra e proseguo con l'agilità di Gambadilegno. Con ragguardevole ritardo giungo anche io sulla cima dove gli amici consumano avidamente il pranzo a base di panini e salsicce. Io mangio una barretta e due noci ma non riesco a mettere altro nello stomaco. Nello sforzo della salita ho provato una nausea che ho potuto alleviare solo con emissioni orali rilevate dai sismografi. All'inizio della discesa le cose vanno un po' meglio, anche se l'impietoso Claudio continua ad imprimere all'escursione il ritmo di una corsa campestre. Inizialmente riesco a blandire i compagni di viaggio con il mio eloquio, ma poi alla lunga si rompono le scatole sia della mia lentezza che delle mie inutili ciance e mi abbandonano nuovamente, mentre nella ripida discesa nuovi crampi aggrediscono la muscolatura bassa. Più che un trekking sembra una lezione di anatomia. Giunto allo stradello cammino a passi lunghi e ritrovo un generale senso di benessere, legato all'appagamento di essere riuscito a portare a termine un percorso impegnativo in un periodo di ripresa. In sintesi, sono stanco ma felice. Lunedì farò molta più fatica, una fatica diversa, decisamente minore ma al contempo anche molto meno appagante. Foto reportage di Gabriele
A pochi giorni dal mio rientro accetto l'invito del Presidente per un insolito trekking di coppia. Gli impegni professionali, e non solo quelli, hanno un po’ scoppiato il gruppo e per un po’ le Piadine non saranno più così unite, nemmeno in quella che Gabriele ama definire "la formazione tipo". Dopo una luculliana cena del Direttivo per programmare gli appuntamenti salienti del calendario 2018, ci rivediamo a poche ore di distanza allo Stravizia: siamo solo io e Gabriele. Carichi di entusiasmo partiamo alla volta del passo dei Mandrioli e alle 8,30 siamo già alla curva del Nocicchio con gli scarponi ai piedi. La giornata rispetta le previsioni ed il sole splende alto in un cielo intensamente azzurro. Il desiderio di Gabriele è addentrarsi nella conca di Pietrapazza dove ci sono pascoli nascosti, molto probabilmente frequentati da animali. In realtà non ne vedremo alcuno, ma il nostro desiderio è già stato appagato lungo la E45, come se percorressimo uno zoo safari: comodamenti seduti sulla Multipla sfrecciamo sulla striscia di asfalto mentre l’occhio vigile ed attento di Gabri scorge nei campi cinghiali, caprioli e persino una volpe. Uno straordinario bottino di caccia, tanto che io propongo di tornare indietro senza camminare affatto, ma poiché la meta del giorno non è soltanto avvistare animali, decidiamo di rispettare il programma. Camminiamo senza affanno lungo il sentiero che porta al punto panoramico del Poggiaccio, per poi percorrere la strada forestale, sentiero 209. Deviamo poi per la ripida discesa nel bosco sino a raggiungere la solitaria chiesa di Pietrapazza. L’ultima volta che sono stato da queste parti è stato a settembre dello scorso anno, ma è nel 2015 che ho percorso lo stesso identico itinerario di giornata. Quella volta ero solo e più allenato, eppure feci una gran fatica, tanto che accusai crampi una volta giunto alla forestale Cancellino-Lama. Ogni sono meno allenato e costretto ad un ritmo più impegnativo: anche se Gabriele rallenta il passo non mi è comunque facile stargli dietro, perché è molto più allenato ed ha gambe considerevolmente più lunghe del sottoscritto. Comunque me la cavo discretamente e mi godo la salita lungo il crinale che porta alla Cialdella. Da qui raggiungiamo il secondo guado di giornata e dopo poco l’Eremo Nuovo con il suo pascolo lussureggiante, dove troviamo evidenti segni di ungulati, ma non registriamo alcun avvistamento. Per vedere qualche animale sarebbe bene fermarsi ed attendere al riparo di un albero, ma non abbiamo così tanto tempo e forse nemmeno così tanta voglia, quindi riprendiamo la lunga salita che porta alla strada forestale. Arrivati alla Fonte delle Cavalle sono abbastanza rincuorato: ci siamo messi alle spalle parecchi chilometri e un considerevole dislivello, ma non sono particolarmente stanco, quindi mi rilasso e mi concedo a una di quelle dichiarazioni che un escursionista esperto non dovrebbe mai pronunciare: “Ora affronteremo il tratto più noioso”. Mai parole furono più funeste. La strada forestale in effetti dovrebbe essere un po’ monotona, però oggi è resa particolarmente difficile grazie alla presenza di neve e un numero altissimo di alberi abbattuti. Sembra una gara di Limbo. A volte li aggiriamo, altre volte ci passiamo sopra, altre ancora ci passiamo sotto. La neve, il fango, i tronchi ed i rami rendono il percorso complesso e faticoso. Dobbiamo guadagnarci ogni metro con grande dispendio di energie. Gabriele in salita ha avuto la bella idea di togliersi l’elemento inferiore dei pantaloni ed ora dalle ginocchia in giù sembra sia stato aggredito da un gatto. Dopo un paio di sofferti chilometri mi si accende la spia della riserva ma non posso fare altro che stringere i denti e proseguire. L’avvistamento di un daino che risale agilmente dal fosso non mi rincuora; non sono dell’umore adatto per apprezzare snelli ungulati che sgambettano leggiadri mentre io sbuffo come una locomotiva a vapore. Quando incrociamo un ciclista che tenta il sentiero in senso opposto, ne sono rincuorato: se è arrivato qui con la bici vuole dire che stiamo andando incontro a un miglioramento. In effetti all’incrocio dello 00 il paesaggio cambia radicalmente, ma arrivarci è comunque impegnativo. Da qui sarà una camminata più normale e senza il coefficiente di difficoltà aggiuntivo della neve e dei tronchi di traverso. Il mio rammarico è che di questo trekking, nella memoria non rimarrà il piacere dei 13km sgombri di neve percorsi al tepore di un gradevole sole primaverile, ma dei 4km di sofferenza passati a scavalcare tronchi facendosi frustare dai rami sprofondando nella neve. E poi hanno anche chiuso il chiosco della piada a Bagno di Romagna! Clicca qui per vedere il reportage fotografico di Gabriele
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Massimo
Massimo è sposato con Roberta ed è padre di 2 figli. Lavora tutti i giorni al computer e nel tempo libero scappa in montagna, il suo spazio libero fra foglie e nuvole. Archives
Agosto 2020
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