Montagne alle quali si deve obbligatoriamente dare del Lei. Montagne che si fanno rispettare. DEI UAN Ale organizza meticolosamente l’annuale due giorni e, dopo la bella esperienza dell’edizione 2017, non perdo la possibilità di bissare la grande cavalcata dolomitica. Quest’anno facciamo le cose in grande: oltre al gruppo Krak di Faenza, si unisce una delegazione di Piadine Randagie composta da Gabriele, Paolo, Andrea e mio figlio Giacomo. Dovremmo essere in 12 ma all’ultimo una defezione abbassa il numero dei presenti a 11. Tappa di avvicinamento con pernottamento a Bussolengo e meeting point all’area di servizio Paganella Est. Baci, abbracci, strette di mano formali fra sconosciuti accomunati dalla passione per la montagna. Dopo un semi avventuroso viaggio in autobus tirolese guidato da un improbabile tramviere romano, riusciamo finalmente a partire verso il Ciampedie. La salita è piuttosto impegnativa e in pochi chilometri scaliamo da 1300 a 2000 metri slm. Davvero niente male. Arrivati sullo spettacolare pratone troviamo numerose famigliole sbragate al sole, attempati signori e montanari da brandina. Il clima è un po’ da Festival dell’Unità, ma ci godiamo la meritata sosta in questa terrazza verde baciata dal sole e dalle nuvole, circondata da guardiani di roccia. Per l’occasione io sfoggio per la prima volta il nuovo vessillo delle Piadine Randagie. In realtà è molto presto per festeggiare: in termini di quota siamo solo a metà strada. Proseguiamo sul facile stradello nel bosco che porta fino al rifugio Gardeccia. Il percorso è fiabesco, anche se il pathos è un po’ svilito dal viavai da vasca del sabato pomeriggio in centro e dal mercatino in stile San Marino che troviamo nella piccola comunità. Il tempo di acquistare una immancabile calamita da frigo e riprendiamo a salire puntando il rifugio Vajolet, ma sopratutto lo spettacolare Preuss che dal sentiero basso sembra un falco appollaiato su uno sperone roccioso in attesa di spiccare il volo. La salita ci porta a 2250 metri slm e paghiamo un dazio caro: Nicola molla a cause delle vesciche ed è costretto alla rinuncia. A nulla vale il sacrificio di Andrea che sale scalzo per permettere all’amico di usare i suoi scarponi. Fachiro. Abbandoniamo Nico al suo triste destino in questo posto da sogno, dove riposerà brindando con birra gelata, per rientrare il giorno successivo lungo la via facile. Ancora non lo sappiamo, ma forse il nostro destino è più triste del suo, infatti all’imbocco del sentiero che sale al mitico rifugio Re Alberto ci accoglie un minaccioso cartello: sentiero per escursionisti esperti. Apparteniamo a tale élite? In realtà il sentiero è duro ma non impossibile ed incontriamo anche bimbetti al seguito di genitori temerari. Ci arrampichiamo con unghie e denti salendo circa 400 metri di quota in un chilometro di strada. La strada non è proprio verticale ma è anche ben lungi dall’essere facile, con tratti messi in sicurezza da funi metalliche da via ferrata. Il signor Paolo, complice uno strudel ancora al vaglio degli inquirenti per sospetto doping, parte come uno stambecco inerpicandosi con inusitata agilità. Con lui Giacomo, forte dei suoi 21 anni, sale altrettanto bene. Il Presidente scala con l’aplomb impostogli dal ruolo. Andrea usa i moccoli come propellente. Io arranco in coda sbuffando come una locomotiva e colgo ogni occasione per fermarmi cavallerescamente cedendo il passo ad ogni persona incontrata sul sentiero. Un evidente caso di noblesse oblige opportunista. Una bimba in discesa chiede al padre se hanno raggiunto metà strada; quando il padre la rassicura mi convinco si tratti di una pietosa bugia. In realtà è così, ma lo scoprirò solo arrivato in cima, cima che non arriva mai. Giungiamo verso le 18 a ranghi assolutamente disgregati, stanchi ma felici. Qui ci accoglie una simpatica cameriera che, a 2620 metri di quota e in mezzo al ghiaione, nell’immaginario della comitiva diventa Belén Rodriguez. Per non inguaiare duraturi rapporti matrimoniali non farò il nome dei vari cascamorti che si avvicenderanno nel goffo corteggiamento della malcapitata. Il rifugio è piccolo ma molto carino. È affollato e spartano, ma pulito e rinnovato nell’arredo. Dopo una discreta cena, alcuni salgono su un punto panoramico per ammirare uno spettacolare tramonto dolomitico. Non capita tutti i giorni di ammirare tanto splendore e non mi lascio sfuggire l’occasione, anche se la breve salita mi mette a dura prova: per oggi ho messo troppi metri sulle mie povere gambozze. Finalmente il mio cellulare si anima e chiamo a casa. Ci sono 8 gradi, un vento che taglia ed il mio abbigliamento è inadeguato. Sembro un soldatino della grande guerra di vedetta. Riguadagno il rifugio e mi infilo nel sacco a pelo nel tentativo di ritrovare le energie. DEI CIU Il giorno successivo il meteo ci omaggia nuovamente di una spettacolare giornata e alle 8,30 circa siamo già sul sentiero. In mezz’ora circa scendiamo per la stessa via che ci ha permesso di raggiungere il Re Alberto e allo svincolo restiamo in attesa del gruppo faentino. Scendono a passo prudente, poi vanno al rifugio Preuss per verificare le condizioni del Padre Pio faentino e con l’occasione si fermano per una pausa caffè. Quando capiamo che vogliono fare più soste pasto di una comitiva hobbit, il gruppo Piadine decide di procedere senza indugio. Ci attende una salita di tutto rispetto fino al rifugio Passo Principe a quota 2600. Parto a testa bassa con il mio passo da mulo e dopo pochi metri il gruppo mi distacca, poi mi superano baldanzosi giovanotti, belle pulzelle, attempati montanari, adipose casalinghe, bambini brontoloni ed anche un non vedente con cane guida. Arrivo ultimo fra gli ultimi ma arrivo. E qui scopro che quella che consideravo la Cima Coppi odierna in realtà non è altro che l’ennesima tappa di avvicinamento alla vetta. Il rifugio è posto in un luogo mozzafiato, abbarbicato sulla roccia, posto di vedetta su una sella spettacolare, ma non riesco a godermi né la scena né l’immancabile ski wasser. Guardo con preoccupazione ciò che ci attende. Mentre salivo ho notato una scia di formiche salire lungo un effimero sentiero e li ho anche filmati pensando “poveracci”. Quando scopro che anche io sarò un poveraccio scompare dal mio viso un sorriso ebete per lasciare spazio a una espressione preoccupata/spaventata. Battezzo già la roccia sulla quale mi schianterò e salgo come un condannato al patibolo. In realtà scopro che la strega vista da vicino è molto meno brutta di quanto non apparisse vista da lontano. Gettata dallo zaino madama paura, estraggo dal medesimo sorella fatica. Ne ho sempre con me una buona scorta. Davanti a me c’è un signore dalla chioma canuta e penso: mi metto sulla scia del vecchietto e arrivo in cima. Il problema è che il vecchietto mi distanzia di 50 metri in 10. Praticamente si muove su un cuscinetto d’aria. Ho incontrato un cavaliere Jedi. Proseguo alla velocità di un divieto di sosta, mi prendo una pausa per mettermi una ginocchiera rispondendo a un monito silente e, col mio solito passo caracollante, raggiungo il resto della comitiva. Anche il gruppo di Faenza è con noi. Proseguiamo in leggera salita e tocchiamo la vera Cima Coppi a quota 2770, il Passo Antermoia. Abbiamo aggirato il Catinaccio, ammirando gli scalatori che lo affrontavano in cordata lungo una ferrata che Ale definisce “facile”. Non concordo sulla sua valutazione e saluto gli scalatori con il gesto dell’ombrello. Da qui la strada si fa quasi tutta in discesa fra sassi che rendono incerto il nostro passo e rimasugli di neve che ci costringe alla prudenza. Arriviamo all’ora di pranzo al rifugio Antermoia dove troviamo una vera comunità festante: sulle rive del lago si prepara al concerto la banda di Tesero, il rifugio è colmo di camminatori e bikers. Consumiamo il nostro pasto a fianco di ciclisti russi ubriachi, che definirei più ubriachi che ciclisti. Alla ripartenza c’è il nostro ultimo incontro con gli amici del gruppo Krak. Loro si fermeranno per il pasto e noi decidiamo di proseguire non senza averli ringraziati per l’invito e la bella compagnia. Ci lanciamo lungo la discesa mettendo a dura prova i nostri muscoli già in crisi. Mi lamento per la roccia e madre natura mi ascolta: scesi di quota ritroviamo una vegetazione lussureggiante camminando in un mare verde. Quando raggiungiamo il facile sentiero della Val Duron siamo stanchi come poche altre volte, ma sappiamo di dovere scendere ancora. Sembra che Vigo di Fassa sia negli inferi. Al rifugio Micheluzzi dobbiamo decidere se battere in ritirata e salire sulla navetta che fa la spola, oppure se completare l’impresa. Io e Gabriele non abbiamo indugi. Il più in difficoltà sembra essere il signor Paolo, quel meraviglioso stambecco che abbiamo ammirato per due giorni ha lasciato le lunghe corna al passo Antermoia ed ora è un po’ in difficoltà ma stringe i denti. Chi scende meglio è Giacomo che arriverebbe all’auto per primo, se non fosse per un errore di direzione e un padre idiota: a pochi metri dall’auto lo beffo come facevo quando era bambino. Quella volta si arrabbiava, invece ora sul suo viso compare solo una smorfia di compatimento, ed è così dolorosa che per un po’ dimentico il male alle ginocchia. Clicca per vedere le foto e leggere il post di Gabriele
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Massimo
Massimo è sposato con Roberta ed è padre di 2 figli. Lavora tutti i giorni al computer e nel tempo libero scappa in montagna, il suo spazio libero fra foglie e nuvole. Archives
Agosto 2020
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