Dovevo arrampicarmi su rocciosi pendii di confine per scoprire un nuovo nemico: le vesciche. In effetti non si tratta di un fenomeno sconosciuto, ma a certi livelli di difficoltà e su tali dislivelli e percorrenze una semplice vescica di trasforma in una piaga che ti rammenta ad ogni passo quanto sei cretino. Ma andiamo in ordine.
Come da programma io, Silvia e Davide raggiungiamo le Alpi Marittime nella giornata di sabato 11 agosto. L’intenso traffico ci costringe a un arrivo leggermente ritardato ma non perdiamo l’opportunità di visitare il bellissimo centro faunistico di Entracque dedicato al lupo. Il museo multimediale si rivela una sorpresa entusiasmante e, dall’apposita torretta, abbiamo la fortuna di potere ammirare un branco di lupi che risiede nei 6 ettari messi loro a disposizione dall’ente parco. Si tratta di esemplari che, per varie ragioni, sono stati soccorsi dalle guardie e dai veterinari, il cui reinserimento in ambiente selvaggio non è più possibile senza mettere a rischio la loro vita. Certo non è come incontrarli liberi e dominatori della montagna, ma non si tratta comunque di un incontro privo di emozione. 12 AGOSTO Il giorno successivo, poco dopo le otto del mattino, iniziamo la nostra avventura con il morale alto e tante aspettative per questo lungo trekking da tanto tempo programmato. La salita dal parcheggio di San Giacomo (1213 mt) verso il rifugio Soria-Ellena è graduale e non particolarmente impegnativa. Le energie sono fresche e il panorama tipico dell’alpe ancora a bassa quota: vegetazione lussureggiante ed intorno a noi rigagnoli e cascatelle. Spesso incontriamo animali al pascolo, completamente privi di sistemi di guardiania, a parte un cane che da un maso ci abbaia più per dovere che per reale timore. La cosa mi insospettisce: nel regno dei lupi trovo sia singolare incontrare un livello così basso di controllo e tutela. Nelle zone appenniniche storicamente in mano alla pastorizia come in Abruzzo o nei Sibillini, il ritorno del lupo è gestito con una comprensibile tutela maniacale: recinti elettrificati, cani da guardiania, pastori in costante allarme. Qui si respira una generale aria di rilassatezza, come se il grande predatore non fosse presente. L’accenno di un dolore però mi strappa ai miei pensieri: a pochi metri dal Soria-Ellena sento che c’è qualcosa che non va e decido di fermarmi per controllo, scoprendo che si stanno formando delle vesciche su entrambi i talloni. Ero così preoccupato per le mie ginocchia e i miei crampi muscolari che mi sono concentrato sulla prevenzione e la soluzione di questi problemi, tralasciando invece l’ipotizzabile problema delle vesciche. Accusando a volte dolore alla pianta dei piedi e sapendo che dovrò percorrere molti chilometri, mi viene la splendida idea di inserire delle solette in gel nello scarpone. In effetti queste svolgono ottimamente il loro dovere ma spostano il piede di pochi milimetri nella sede dello scarpone già rodato, rendendolo praticamente uno sconosciuto ai miei poveri talloni che trovano così un nuovo punto di attrito. Dopo 4-5 chilometri di strada ho già i talloni martoriati. Proseguiamo su una pietraia impervia verso il valico di confine Colle Finestra, a quota 2471 metri. La nostra guida cartacea garantisce l’avvistamento di stambecchi e camosci, ma noi non ne vediamo nemmeno l'ombra. Sul valico troviamo solo francesi che vengono in Italia e le rovine di una caserma italiana costruita nel 1939 quando il governo fascista temeva che i tedeschi potessero decidere di procedere verso l’Italia dopo avere agevolmente conquistato la Francia. Questi sono anche i luoghi percorsi da viandanti meno spensierati durante i tragici fatti della seconda guerra mondiale, quando molti ebrei cercarono fuga e riparo inerpicandosi su queste cime con scarpe e indumenti inadeguati, valigie improvvisate e bambini sulle spalle. Il mio disagio acuisce il senso di solidarietà verso queste genti assurdamente perseguitate. Poco più avanti, sul Pas des Ladres in terra francese, la nostra fatica è ricompensata dall’incontro con numerosi camosci e dalla vista del fiabesco lago di Trécolpas. Davide di inerpica nel tentativo di scattare foto ravvicinate, mentre io e Silvia rimaniamo al valico dove a pochi metri brucano serenamente altri esemplari. Il lago è circondato dalla vegetazione ed ha anche un minuscolo isolotto raggiungibile da una strada di sassi, oggi sommersa da circa 50 cm di acqua. Un piccolo Mont Saint-Michel a 2130 metri di quota. Sulla riva del lago ci concediamo una lunga sosta prima di riprendere l’ultimo tratto in leggera discesa che, su un sentiero franato, ci conduce al Refuge de la Cougourde. Sono le 17,30 abbiamo percorso circa 14km in nove ore, di cui 1380 in salita e quasi 500 in discesa. In questo contesto ammirare la valle di Le Boréon mentre sorseggi una Coca ascoltando musica francese ha un sapore speciale, tutto sembra più bello e più intenso. Conosciamo una coppia svedese, ceniamo insieme a una coppia francese e cerco di godermi la serata senza allarmare i miei compagni di viaggio, anche se lo stato dei miei talloni mi preoccupa. Tento di medicarmi sia alla sera che al mattino ma tutto è inutile. 13 AGOSTO Al mattino successivo scendiamo verso Le Boréon pensando che si tratti di un piccolo borgo, per scoprire che invece si tratta di un centro montano privo di servizi, dominato dal centro visitatori dedicato al lupo, gemello di quello visitato ad Entracque. A metà discesa ha iniziato a piovere e, quando scopriamo che non potremo rifornirci di cibo come previsto, con l’umore alterato dalla pioggia battente, chiediamo le indicazioni per imboccare il sentiero verso il Colle di Ciriegia. Sappiamo che al rifugio Regina Elena non troveremo servizio di ristorazione, ma non siamo né dell’umore né nelle condizioni di cercare un posto di rifornimento, senza sapere se e quando lo troveremo. Siamo a 1480 metri e dobbiamo percorrere 4,5 km per raggiungere il valico a 2543 metri sotto una pioggia battente. In queste condizioni vanno bene anche le barrette. La salita nel bosco è impegnativa, ma paradossalmente resa leggera dall’acqua perché ci permette di camminare al fresco. Quando usciamo dal bosco saliamo lungo l’immancabile pietraia che mi mette di cattivo umore. Sono un hobbit della Contea e camminare con i piedi piagati su queste rocce mi fa sentire come se dovessi portare l’unico anello al monte Fato. La pioggia è finita e le mie scorte d’acqua iniziano a scarseggiare. Sosto per rifornirmi ad un ruscello e i miei compagni mi distanziano. Il loro passo è più spedito e raggiungeranno la cima con grande anticipo rispetto allo scrivente. Mi attendono con pazienza vicino all’immancabile caserma militare italiana e, dopo un cambio di abiti asciutti, attacchiamo la discesa del Vallone di Ciriegia che ci porterà al Pian della Casa del Re. Sono tre ripidi chilometri interminabili di sassi, che la nostra guida descrive come “una lunga e impegnativa discesa su un terreno marcatamente detritico”. Giungiamo stanchi al rifugio dopo circa 9 ore di cammino, 13 km percorsi, di cui 1100 in salita e 1350 in discesa. Alle mie vesciche ai talloni si aggiunge un accenno di vescica ai pollici e un forte dolore a due dita dei piedi. Le unghie di queste dita sono annerite per un ematoma ed è possibile che le perda nei prossimi giorni. Però l’accoglienza ricevuta al rifugio scalda il cuore. Qui troviamo Corrado e Massimo, due alpini che servono per una settimana come gestori volontari del rifugio. L’edificio è stato costruito negli anni ottanta dagli alpini della sezione di Genova e dagli inizi del nuovo millennio viene tenuto aperto nel periodo estivo e curato da coppie di volontari che si danno il cambio a turni settimanali. Salgono fino a dove possono con l’auto poi si caricano sulle spalle viveri, indumenti e bombole del gas, facendo anche più volte la salita di mezz’ora che porta al piccolissimo rifugio, dove non manca nulla. Hanno appena pulito e disinfettato il piccolo bagno, ci offrono un catino per lavare i panni, accendono la stufa per scaldare l’ambiente e favorire l’asciugatura degli abiti bagnati dal bucato e dalla pioggia. Qui troviamo due giovani veneti che fanno come noi il trekking del lupo su un itinerario alternativo al nostro. Hanno scelto di visitare il centro del lupo in Francia e, dal confronto, ne viene fuori che quello italiano è realizzato meglio ed ha un costo di ingresso inferiore. C’è anche una camminatrice solitaria francese e gli alpini ci dicono che è molto frequente trovare camminatori solitari, in maggioranza donne. Chi lo avrebbe mai detto? Verso l’ora di cena ci raggiungono anche due viandanti olandesi. Si tratta di padre e figlio, non hanno prenotato il rifugio e lo hanno trovato quasi per caso al limitare del giorno. Quando chiedo al ragazzo cosa avrebbero fatto se non fossero finiti qui, lui mi risponde con candore che hanno una tenda e 5 giorni di autonomia in termini di viveri, quindi si spostano senza patemi e senza programma. Corrado dice che gli olandesi sono gli ositi più rispettosi, invece non ha molto in simpatia i francesi. In queste terre di confine la rivalità campale è più accesa e notiamo che le cartine in terra italiana non contemplano i sentieri in terra francese, così come accade in senso opposto quando si guarda una cartina francese. Sembra che i due parchi gemelli dicano: arrivi fino a lì e poi finisce il mondo. Abbiamo incontrato alcuni camminatori di zona italiani e, quando parliamo loro del rifugio o delle località oltre confini ci dicono di averle sentite nominare, senza averle mai visitate, e negli occhi hanno lo sguardo di chi non vuole mischiarsi “con quella gente là”. Popoli di confine. Corrado è una fucina di informazioni ed episodi. Passa la serata a tenere banco con i suoi racconti di camminate ed incontri insoliti, come quella volta che una ragazza polacca raggiunse il rifugio in piena notte dopo un incidente avuto proprio lungo la discesa che abbiamo percorso noi. Al tramonto avvistiamo una dozzina di camosci che tutte le sere scendono a brucare sul prato a circa 100 metri sotto il rifugio e Silvia ha anche la fortuna di ammirare un ermellino a distanza ravvicinata. Corrado dice che è di casa e come lui volpi o altri piccoli mammiferi frequentano il rifugio in cerca di avanzi che ogni sera vengono opportunamente lasciati fuori dalla porta. Gli alpini non lasciano nessuno senza cibo, nemmeno gli animali. Quando gli spieghiamo che mangeremo barrette ci invitano a tavola senza ammettere repliche: pasta al pomodoro, spezzatino coi porcini, formaggio, crostata, mele cotogne del frutetto di Corrado. Un pasto da re e una accoglienza che ci fanno sentire a casa dopo una giornata iniziata sotto la pioggia e una lunga camminata spacca gambe, nel mio caso spacca piedi. Lo spirito che troviamo riflette meravigliosamente le parole vergate da uno dei costruttori, l'ing. Renzo Less, quando scrisse: “Che questo rifugio accolga con amore, grande almeno quanto quello con il quale è stato costruito da pochi volenterosi e disinteressati alpini genovesi, tutti gli alpinisti che qui si fermeranno”. Amen. 14 AGOSTO La situazione dei mie piedi non è affatto buona ma il nuovo giorno mi restituisce un po’ di entusiasmo, quanto basta per decidere di attaccare a testa bassa la salita verso il lago alpino di Fremamorta. A metà salita cerco di fare capire ai miei compagni di viaggio il mio disagio, condizione che hanno compreso solo in parte perché non li ho voluti rendere partecipi rovinandogli la vacanza, leccandomi sempre in disparte le ferite. Il loro morale è molto alto, stanno bene fisicamente e potrebbero portare a termine il percorso senza troppi patemi. Potrei farlo anche io se non fosse per il dolore lancinante ai piedi. Non mi va né di rovinare le loro ferie, né di mollare. Non mi piacciono le persone che mollano e ancor meno quelle che si lamentano. Cerco quindi di salire con stoica determinazione, nel tentativo di concludere almento la terza tappa che corrisponde alla settima della nostra guida cartacea. Saliamo dai 1834 metri del rifugio fino al meraviglioso lago di Fremamorta a quota 2380. È una salita di 3,5 km con un dislivello di oltre 500 metri che dovrei percorrere senza problemi, ma le vesciche sono ormai una tortura insopportabile. Si tratta senza dubbio della tappa più bella del percorso ma non mi godo nemmeno un metro, penso solo a resistere. Saliamo ancora fino al Colletto di Valasco a quota 2429 e da qui inizia una lunga discesa che attraverso la Valmorta e la Piana del Valasco ci permetterebbe di ammirare le terre di caccia della famiglia reale, l’antica strada militare, le marmotte e gli immancabili ruscelli e le cascate che irrorano a dovere queste terre lussureggianti. Ma io non riesco a godermi tutto questo e cammino con il passo strascicato dei militari che tornarono dalla disastrosa campagna di Russia con i piedi piagati e fasciati da stracci. A poco vale la sosta ristoratrice presso il rifugio Valasco, ex casa reale di caccia dei Savoia costruito in una location da cartolina a 1764 slm. Le due torrette gli conferiscono la fisionomia di un piccolo maniero, ma la ristrutturazione e l'imbiancatura esterna lo fanno sembrare, citando Silvia, "un enorme gonfiabile". Peccato perché ricavare alloggi e ristorante dalle vecchie stalle è stata invece una bella idea. In qualche modo concludo la tappa nel bel centro termale di Valdieri, un posto da fighetti con tanto di Grand Hotel. Noi dormiremo nel posto tappa Casa Savoia, un rifugio all’altezza del lusso locale che tenta di preservare le regali vestigia del passato. Anche oggi abbiamo percorso oltre 13 km, salendo per più di 600 metri di dislivello e scendendone oltre 1000. Qui dichiaro forfait. Non voglio guastare la festa i miei amici, che sono stati fin troppo gentili e pazienti con me, ma ho fatto veramente di tutto per non rovinare la loro vacanza. Ora però non sarebbe saggio proseguire. Alla sera credo anche di avere qualche linea di febbre e sento un insolito freddo. Trovo anche del sangue sulla punta della suola destra per una ferita ad un dito. Quando dichiaro la mia resa anche loro decidono di chiudere il percorso, nonostante mi sia trovato un posto dove dormire e mi sia dichiarato disposto ad attenderli fino al giorno successivo, quello previsto per il rientro. Di più non riesco a fare e me ne rammarico, sia per loro che per me. Anche Davide ha trovato molto impervie queste montagne. Ha molta esperienza di dolomiti e dice che in quelle terre, quando si raggiunge la quota, più o meno la si mantiene, ma qui non è così. Qui si sale solo o si scende. Non spiana mai e qui le Piadine Randagie non potrebbero mai inneggiare il loro motto. Il bilancio complessivo è controverso. Una cosa mi ha deluso: qui di lupi ce ne sono davvero pochi e quei pochi hanno solo saputo mitizzarli. Ho fatto qualche domanda mirata agli alpini, ad esempio quando ho visto brucare i camosci indisturbati e vulnerabili a pochi metri dal rifugio Regina Elena. Quando ho chiesto loro perché gli animali non temono il lupo loro mi hanno risposto che ce ne sono davvero pochi ed agiscono su un territorio molto vasto; in sostanza non costituiscono una vera e propria minaccia. Insomma in queste terre il lupo è più un animale sfruttato dal marketing del parco che un vero spauracchio per pastori e bestie selvagge, come in altre terre. Si tratta di montagne aspre, rocciose, alte, impervie, che ti costringono al rispetto. Le devi percorrere sbuffando a testa bassa e questo toglie un po’ il piacere della camminata, impedendoti di ammirare le vere bellezze di questa terra che, a mio avviso, si trovano fra i 1400 e i 1800 metri di quota. Ma nel mio caso tutto è alterato dall’errore commesso mettendo 3mm di suola extra sotto i piedi. Resta il dispiacere per una impresa incompiuta, solo sfiorata e comunque sofferta. I conti della serva mi dicono che in tre giorni ho percorso 40 km, di cui circa 3100 in salita e 2850 in discesa. Guardo le mie piaghe e non so se vederle come medaglie d’onore o un inno alla stupidità. Ci penserò domani, per ora l’unica cosa certa è che per un po’ non metterò gli scarponi.
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Massimo
Massimo è sposato con Roberta ed è padre di 2 figli. Lavora tutti i giorni al computer e nel tempo libero scappa in montagna, il suo spazio libero fra foglie e nuvole. Archives
Agosto 2020
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