È dalle prime rampe che salgono dal caseggiato di San Paolo in Alpe che questo bigio trekking invernale appare avere un leitmotiv: il tempo. Oggi siamo in sette, Pape compresa, e raggiungeremo la cascata dell'Acquacheta da una via che non conosco: 5 km di salita costante fino alla Cima Coppi di giornata, Monte delle Capanne. Poi in discesa fino al Tramazzo e salita breve ma impegnativa per riguadagnare quota ed arrivare alla cascata dal versante opposto per ammirarla ruggire frontalmente. Con noi ci sono Heidi e Doretta, due amiche simpatiche e "toste": non si lamentano per la levataccia, per la fatica e per la pioggia. Ma come noi non sono nate ieri e sorrido mentre facciamo riferimento a loro con il termine di "ragazze", perché a vent'anni non le avrei certamente chiamate così. Ma oggi mi accorgo che in realtà meritano questo appellativo, perché se pure i 20 anni siano passati da un po' anche per loro, nello spirito sono più ragazze di tante giovani che conosco. Rammento una recente trasmissione radiofonica dove un signore over 70 ha dichiarato di sentirsi un ragazzino: "Vado in giro in moto e mi vesto come un giovanotto di 40 anni". Tutto è relativo e, come dice uno slogan "40 is the new 20". Inevitabilmente ammorbo i compagni di sventura con i miei racconti sui recenti studi del canto degli alberi, registrato con apparecchiature in grado di catturare e convertire le modulazioni elettromagnetiche delle piante in vera e propria musica. I miei amici non possono scappare e sono costretti ad ascoltarmi mentre parlo loro di "Old Tjikko", un abete di oltre 9500 anni che si trova in Svezia e di cui mi ha parlato recentemente un amico studioso, esperto di neurobiologia vegetale. Questo porta inevitabilmente il mio pensiero al bosco che ci accoglie ed a quanto possiamo apparire giovani e presuntuosi davanti a queste creature che ci precedono e succedono nella linea temporale. Probabilmente cercano di non ascolatre il nostro vociare confuso e fastidioso mentre infrangiamo il sacrale silenzio della foresta, come gli Ent di Tolkien. Dopo avere lasciato la cascata di Dante, seguiamo la sinistra idrografica del Fosso dell'Acquacheta e proseguiamo chiacchierando. Non ricordo come ma evoco ad Alessandro i miei trascorsi di sciatore e gli racconto della profonda passione di mio padre per quello sport, passione che ci portò a visitare tutte le principali località appenniniche e dolomitiche durante la mia adolescenza. A quel tempo ero un ragazzino che non sentiva la fatica e che non comprendeva gli acciacchi degli adulti. Ascoltavo senza comprendere mio padre e i miei zii parlare di dolori muscolari dopo un giorno di sci e pensavo: "ma di cosa stanno parlando?" Ebbene mi sembravano "vecchi" o almeno la loro età mi sembrava quasi lontana ed irraggiungibile. Mentre parlo mi rendo conto che a quel tempo mio padre non aveva nemmeno 40 anni ed oggi mi sembrerebbe un ragazzino. Come tutto è strano e relativo. Oggi solco questi sentieri e mi sento bene, mi alleno quasi tutti i giorni, cammino senza affanni e particolari problemi. Ringraziando Dio godo di buona salute, non ho particolari acciacchi e recupero abbastanza in fretta, ma ho comunque 10-15 anni in più di quando mio padre mi pareva già un anziano sciatore. Buffo. Ora capisco meglio i miei figli e le loro frasi che spesso considero irrispettose: loro mi hanno sempre visto come un vecchio, a partire da quando hanno aperto gli occhi. Non è una questione di mancanza di rispetto, piuttosto il naturale trascorrere degli eventi. Solo io quando mi soffermo allo specchio non riconosco l'attempato signore che ricambia il mio sguardo. La ragione è che io non lo vedo fuori, come lo vedono tutti. Gli altri vedono una barba bianca e dei capelli radi, io invece lo guardo dentro e dentro ha l'animo di un bambino con gli occhi, come direbbe Guccini, "spalancati sul mondo come carte assorbenti".
0 Commenti
Esauriti i motivi per non esserci, questa volta mi unisco all'allegra comitiva delle Piadine, che anche alla seconda uscita del 2020 registrano un insolito overbooking: al parcheggio di Badia Prataglia siamo in 10 bipedi e 2 quadrupedi, quasi un record di presenze. Le previsioni segnalano un peggioramento del tempo. "Finalmente", penso fra me e me, perché quest'inverno non è mai stato veramente tale. È ora che faccia freddo e che cadano pioggia e neve. Anzi, forse è anche troppo tardi per il regolare bioritmo della foresta. Comunque il gruppo mantiene alto il morale e sfida le previsioni poco favorevoli. Il nostro buonumore pare squarciare il cielo e ci lasciamo alle spalle il piccolo paese montano salendo uno stradello baciato da un pallido sole invernale. La strada sale lenta, ma non è faticosa. La salita è resa leggera dal piacere di condividere questo tempo e questa passione. Mentre salgo rifletto sulla frase pronunciata distrattamente da mia moglie la sera precedente, quando le ho comunicato che anche davanti alla probabile pioggia quasi nessuno ha rinunciato all'escursione:
"Sono cose che si fanno per passione" Tanto banale, quanto vero. Tanto vero, quanto determinante. In fin dei conto tutto si riduce a questo, a quanto cuore puoi e vuoi mettere in ciò che fai. La passione è quella moneta incommensurabile che si paga colmando la differenza tra lavoro e arte, tra dilettante e campione, tra dovere ed eroismo, tra abitudine e fede, tra ragione e follia. Per usare le parole del concittadino Fellini, tanto celebrato in questi giorni: "Non c’è fine. Non c’è inizio. C’è solo l’infinita passione per la vita." Mentre salgo tra frizzi e lazzi, beandomi della compagnia di questi amici e del rumore delle foglie sotto i piedi, penso anche che non posso e non devo considerare scontato il dono che mi è stato fatto di calcare questi sentieri vetusti. Penso in primis a Dio che ha creato tutto il bello che adorna la nostra vita, creatore anche di questi monti coperti di alberi. Poi penso a protagonisti noti, come Carlo Siemoni e Fabio Clauser, ed ancora più penso ai protagonisti muti e silenti che mi hanno reso possibile essere viandante in questa fiaba silvestre. Perché se è vero che Dio dona, credo sia altrettanto vero che sia responsabilità e dovere dell'uomo mantenere e conservare. Purtroppo nella maggior parte dei luoghi stiamo calpestando il dono che ci è stato fatto di dimorare in un pianeta tanto bello. Ma non qui, in questo fazzoletto verde, tessuto con terra, pietre, tronchi e foglie. Perché questo è un luogo nel quale l'uomo ha messo passione, facendo la differenza. Qui si sono raccolti uomini che hanno pensato a dare, piuttosto che prendere, sapendo che la natura restituisce con gli interessi. Uomini e donne che hanno compreso che non esiste solo un oggi, ma che la vita è fatta di tanti domani. Persone che non hanno trattato le foreste come un supermercato saccheggiandone gli scaffali, ma che hanno compreso l'importanza di piantare, di seminare, di concimare e di attendere. Persone che hanno agito con passione e pazienza, accettando anche di non cogliere il frutto della propria semina, con la fede ferma e certa di chi sa che qualcuno un giorno ne avrebbe assaporato il gusto dolce. Uomini che hanno compreso che ci sono anche i figli e i nipoti e che non necessariamente questi figli e nipoti devono essere tuoi. Basta che lo siano dell'umana famiglia. È con un cuore grato che guardo il verde, il giallo e il marrone di questo arazzo dipinto da Dio e conservato dall'uomo. Ore di sonno e ossa infreddolite sono poca cosa davanti al piacere di condividere questa passione con tanti amanti del bosco. Mentre scendo le ultime rampe cade una pioggia leggera e penso che, accomunati dall'amore per il bosco, oggi siamo ben più di dieci a calcare questi ciottoli. VERSIONE SHORT Salsicce, cipolla, fagioli, pane. Ma quanto cacchio costa il pane? Si parte alle 14, Monti col cartello da autostoppista, arrivo alla sbarra, piove che Guido la manda, non c'è la legna, prepara il chili. Ma quanto siete brutti, fatevi la barba, Franz è sempre uguale, chi è quel vecchio allo specchio? Arrivano gli altri, chi li va a prendere? Grazie Sandro, se non c'eri te chi le bruciava le salsicce? Panò tu sì o cummuoio... C'è Beppe a sorpresa, Mirko si è portato anche i pensili della cucina, Tognacci 2 bustine di tè, Giacomo ultimo come le palle del cane. Rinaldo bevi qualcosa che la disidratazionè è pericolosa. Cacchio come piove, vengono giù anche le Fanta. "Zezungobocco" che cacchio è? Tutti con la maglietta, tanti auguri a noi, inno del corpo sciolto, Albachiara, Panò tu sì o cummuoio... Povero Gastone, quello di Tocia fa ombra, rifugi per meditazioni spirituali in Austria. Castagne, ciambella, luverie. Fate piano che Emi è Gasty dormono, Montemaggi non saluta nessuno, partita a carte, Ago deve andare a lavorare, Beppe deve andare in stazione, il calcino della buonanotte, non bastano i letti dormo su una panca. C'è il sole, un daino fuori casa, biscotti, caffè, pulizie, camminata. Il Cuoco è un mentitore seriale, no one left behind, "Beppe aspettaci al bar!", Melu ce la fa, foto di gruppo, "scatto"!!!! Ristorante numero 1 di Biserno su Tripadvisor, c'è anche Ludovico Einaudi, "io mangio solo verdure", toto-conto Tocia style, tutti fuori. Ci offrono da bere, tutti dentro. Panò tu sì o cummuoio... È stato tanto bello ho pianto tanto. Ciao. VERSIONE FULL Abbiamo camminato meno di 3 chilometri in meno di un'ora e in condizioni normali non inserirei questo brevissimo hike nel blog, ma le condizioni non sono affatto normali e non voglio perdere memoria di questa escursione da due soldi che per me vale quanto la traversata delle Alpi. Complice Rinaldo nei panni di segretario/consigliere decido di organizzare una Reunion della Rex Company a distanza di circa 30 anni. Vorrei trascorrere un serata a mangiare e cantare davanti a un camino acceso, come abbiamo fatto tante altre volte quando avevamo meno chili e meno pensieri, ma non sono nemmeno certo che mi prendano in considerazione. L'appello invece ha un successo inatteso e nel giro di un paio di giorni incasso un numero di adesioni superiore alle mie più ottimistiche previsioni. Non ho tenuto conto di un fattore del quale mi rendo conto quando Michele propone una serata di prove a casa sua insieme a Sandro: le amicizie che affondano le loro radici nel periodo dell'adolescenza fanno crescere alberi con un tronco solido che nemmeno il tempo può scalfire. L'incuria degli anni non è sufficiente per abbatterlo, perché dentro resta una linfa vitale che, se pure invisibile agli occhi, permette al vecchio albero di produrre ancora frutti dolcissimi. Ed è questo il sapore che hanno gli abbracci con i quali voglio salutare ognuno di questi cari amici. Sono abbracci dolci che mi entrano nel cuore. Mi accorgo che più è lungo il tempo della separazione, più è lungo il tempo dell'abbraccio, quasi a volere espiare con quel gesto la "colpa" della separazione. Sembra quasi un modo per dire senza parlare: perdonami se ti ho lasciato per un po', ma non ti ho mai dimenticato. Sono troppo profonde queste radici ed è sufficiente il tempo di salutarci per spalancare una porta spazio/tempo e viaggiare fino a Montemezzano, al campeggio sul Trasimeno, nella tenda a Camaldoli o sulla barca dello zio Giorgio, un altro dal quale mi sono separato ma che non ho mai dimenticato. Improvvisamente ci ritroviamo tutti qui, a bighellonare intorno al camino, a mettere il naso in cucina, a bere qualcosa mentre vogliamo sapere dove siamo stati e cosa abbiamo fatto in tutti questi anni. Ma di cosa si alimenta un'amicizia vera se non di prese per i fondelli? E allora si trascorre la serata a dire come si dovrebbero cuocere le salsicce, a contestare le scelte di Paolo su quantità e qualità delle bevande, a cantare la Panozzi Song, a bullizzare il povero Beppe mentre questo prende involontariamente di mira l'altrettanto povero Gastone. Da cosa si riconosce la vera amicizia? Dal fatto che ride più la vittima della presa in giro di colui che sfotte il malcapitato di turno. Il calendario dichiara inesorabilmente che sono passati trent'anni, ma a me sembra di essere nella casa dei miei nonni quando arrivavamo con il PX125 per fare serate a cantare davanto al camino. A parte l'inevitabile dazio pagato a Messer Tempo, mi sembra che non sia passato un minuto quando Michele suona il primo accordo ed io soffio le prime note di una armonica che ho lasciato troppo a lungo nel cassetto. Qualcuno una volta mi ha detto che durante gli anni delle dittature e dei desaparecidos, le persone si salutavano dicendo: "non potranno mai rubarci quello che abbiamo ballato". Ovvero potranno farci di tutto, ma non potranno mai toglierci il tempo felice e i ricordi. Ci sono cose di vero valore che risiedono nel cuore e che niente e nessuno può portarci via. Certamente l'amicizia è una di queste ed allora oggi, giunto al traguardo non ambito delle 50 primavere penso: Messer Tempo tieniti i capelli, tanto gli amici e i ricordi non potrai mai rubarmeli. "Quando chiama la foresta" potrebbe essere il titolo di un B-movie horror, oppure sembrerebbe scimmiottare il noto romanzo di Jack London. In realtà è un titolo che esprime i sentimenti che muovono i miei passi verso il bosco ed animano la decisione di unirmi agli amici per questa escursione di fine ottobre. Il lavoro e gli impegni nell'ultimo periodo mi hanno tenuto lontano dai boschi e quest'anno mi sono perso anche l'ascolto dei bramiti. Seduto al computer vedo foto di altri escursionisti che testimoniano l'intensa attività di flora e fauna: daini che combattono, lupi catturati dalle fototrappole, foto di cervi in posa plastica che bramiscono come fotomodelli in passerella, panorami mozzafiato e foliage in piena attività: foglie caduche poggiate al suolo con sapiente maestria, cascatelle e lame di luce a incorniciare ritratti d'autore. Non resisto. La foresta mi sta chiamando, devo andare anche io ad ammirarla in questa che considero essere senza dubbio la più bella stagione: il bosco avvolto nella nebbia mi richiama come un ventre materno, l'odore del muschio è odore di casa, il rumore delle foglie secche una sinfonia che accompagna il camminatore. Non posso stare lontano da tutto questo. È un caldo autunno e, dimenticando la gravità del surriscaldamento globale, ci avventuriamo lungo il sentiero godendoci la camminata in questo bosco che, grazie al primo sole, esplode di colori. Se non fosse per gli spari dei cacciatori, taglieremmo il ventre molle della foresta nel silenzio religioso che meritano questi luoghi. Oggi faremo tappa a La Verna, e non redo sia un caso che Francesco abbia scelto di ritirarsi per un tempo in queste forre circondate da alberi contorti ricoperti di muschio. La foresta intorno al monastero sembra una immensa chiesa costruita dal più grande degli architetti, e non servono altari o candelabri per sentire la presenza di Dio. Basta isolarsi un poco per sentire la sua voce gentile nel sussurro delle foglie. Forse è una giornata troppo bella per arrivare al santuario: troppo sole, troppo azzurro nel cielo e troppo caldo rubano poesia a questo climax che altrimenti sarebbe da Nome della Rosa. Le campane rompono la quiete e salutano il nostro arrivo. Lasciando questo luogo di preghiera e meditazione cerchiamo di ritornare nel bosco, ma l'incantesimo della foresta sembra svanito: troppe persone e troppo asfalto. La foresta mi ha chiamato ed ho risposto. Mi sono lasciato coccolare dalle sue braccia fatte di rami nodosi annusando il suo scialle di foglie dai mille colori, ora però è tornato il momento di tornare nel grigiore della realtà, il regno del vuoto dove il bimbo non sogna e l'adulto non prega. "Sarebbe bello se..." Quante volte ho pronunciato o ascoltato questa frase? Solitamente è l'imbocco di un vicolo cieco, ma qualche volta l'intenzione prende forma e l'ipotesi diventa realtà. È quello che accade in questo weekend di settembre, mentre l'estate ostinatamente non vuole cedere il passo all'autunno. Con Marco e Giacomo, gli amici di sempre, raggiungiamo il Palazzo di Ridracoli per una serata in compagnia a cenare e chiacchierare. Con noi un altro padre, Roberto. Nella stanza accanto i figli di 10 anni dei miei compagni di viaggio in questa escursione father & son a cavallo tra storia e natura. Solo io sono "orfano" di figlio, ma il mio ha più del doppio degli anni dei ragazzini che sono al nostro seguito ed ha già spiccato il volo. Al mattino cerco di svegliare la truppa il prima possibile, ma è un plotone di lavativi indisciplinati. Mi piacerebbe salire a San Paolo all'alba per tentare la sorte e mostrare ai ragazzi i daini al pascolo, ma non riesco a domare il gruppo. Abbiamo solo la fortuna di ascoltare un cervo bramire nel bosco alle spalle dell'albergo, poi per il resto del giorno sarà quasi sempre silenzio. I più indisciplinati sono proprio Marco e Giacomo. Riescono sempre a farmi sentire il ragionier Filini della situazione, intento ad organizzare minuziosamente un programma che puntualmente nessuno leggerà e rispetterà. Marco tenta di ostentare interesse mentre accenno alle vicende legate a San Paolo nel periodo della seconda Guerra, ma in pochi metri è vinto dalla fatica della salita e perde ogni interesse per la narrazione. Come Cesare vengo pugnalato ripetutamente dalla mano che consideravo amica e Giacomo arriva persino a definirmi "mentitore seriale" perché non stiamo camminando su un pianoro erboso "come avevo promesso" (mai, in realtà). Avevo detto che saremmo saliti per circa 600 metri di dislivello in 6km, ma ho parlato al vento. È molto più divertente non ascoltarmi o fingere di non farlo, per farsi poi beffe della mia maniacale cura del dettaglio e così, come Postiglione in "Compagni di scuola", mi trovo sempre più spesso a parlare agli alberi mentre rispondo a una domanda che mi è stata rivolta. Sulla via del ritorno il gruppo si sgrana perché uno dei ragazzi accusa "crampi al ginocchio" e invece Giacomo si rende conto che potremmo non arrivare per tempo al ristorante. Giammai. In coda restano Marco e Roberto con i figli, in testa Giacomo e suo figlio corrono come leprotti lungo la discesa per Biserno, sognando tagliatelle e carne grigliata. Improvvisamente mi ritrovo a camminare da solo fra i due gruppi, solo come un cervo in mezzo al bosco senza voglia di bramire. I daini non li abbiamo visti, i cervi non li abbiamo sentiti, dei partigiani di San Paolo chi se ne frega. Infine anche il destino cinico e baro ci gioca un tiro mancino: ristorante chiuso per ferie. Strano a dirsì però: quanto ci siamo divertiti! Qualcosa deve essere andato decisamente storto. E non mi riferisco tanto al sottoscritto, spiaggiato come una balena morente all'imbocco del sentiero che porta a Cima Palon. Quello è semplicemente uno specchio della realtà: un anziano sovrappeso e fuori forma che ha tentato di fare qualcosa che non avrebbe dovuto. Mi riferisco piuttosto alla promozione di Swappie. Me ne rendo conto: così non si capisce nulla. Provo a spiegarmi meglio. Dopo reiterati tentativi ed altrettanti fallimenti, prevalentemente a causa del maltempo, riusciamo finalmente a raggiungere Bocchetta Campiglia per attaccare la storica Strada delle 52 Gallerie. Partiamo il venerdì sera e, dopo una piacevole cena a base di formaggi, soppressa e gnocchi ai funghi, alle prime luci del mattino parcheggiamo vicino all'ingresso del percorso storico. Da subito è emozione. Per lo scrivente si tratta non solo di un tuffo nel passato, letteralmente consegnato ai posteri a colpi di piccone, ma anche della possibilità di calcare quei sentieri dei quali ho letto sempre con passione e trasporto. Qui si tocca con mano, e si calca con i piedi, tutto il bello di cui è capace questo popolo nel momento più buio, altrimenti abituato ad arraffare furbescamente e vivere senza il concetto di Patria e bene comune. Nel 1917 ad un manipolo di eroi, termine solitamente abusato ma in questo caso doveroso, venne affidata un'opera tanto ardita che merita un encomio anche solo per averla pensata. La strada carrozzabile degli Scarubbi portava, e porta ancora, alla località nota come "Porte del Pasubio". Il problema a quel tempo è che il simpatico comitato di accoglienza austro-ungarico salutava l'arrivo dei mezzi italiani a colpi di artiglieria per impedire che il fronte avversario venisse approvvigionato. A questo punto al Capitano Leopoldo Motti venne un'idea: costruire una strada sul versante opposto, al riparo dal fuoco nemico. Facile a dirsi, impossibile a farsi. Impossibile perché il versante opposto è una parete di roccia verticale adatta a camosci e scalatori, non certo ad un corpo d'armata che necessitava di portare al fronte uomini, mezzi, viveri, munizioni e tutto ciò che serviva per combattere una guerra di trincea determinante. Il Pasubio infatti era l'unico impedimento naturale all'avanzata nemica verso la scoperta pianura veneta. Passato il massiccio gli austro-ungarici avrebbero marciato trionfalmente sino a Venezia, mangiando baccalà alla vicentina e bevendo Bardolino lungo la via. Quegli uomini, ragazzi provenienti dalle colline toscane, dalle osterie romane, dal tavoliere pugliese, dalla costa amalfitana, dai monti della Sila e dai templi di Agrigento, si riunirono su questo sperone di roccia di cui ignoravano l'esistenza per difendere per l'ultima, disperata volta, tutto ciò che avevano lasciato a casa. Non sono forse eroi questi? Mentre cammino sui passi degli eroi e attraverso le gallerie che hanno scavato con caparbietà per combattere una guerra e permettermi di vivere in un paese forse sbagliato ma certamente libero, penso ai nomi di alcuni uomini che sono stati protagonisti di questa impresa. Penso al Capitano Lorenzo Motti che per primo ebbe l'idea geniale di realizzare quest'opera, vi lavorò e mori un paio di mesi prima della conclusione, deceduto nel parziale crollo del Dente italiano causato dai genieri austriaci nel settembre del '17. Penso al Tenente Ing. Giuseppe Zappa, che avviò l'opera e al Capitano Corrado Picone che la portò a compimento. Buffa la sorte: Zappa e Picone, in nomen omen. Penso agli uomini della 33° Compagnia Minatori che realizzarono tutta la strada militare e dei quali nessuno ricorda il nome. Ma non solo: furono così bravi che vennero trasferiti e si trovavano altrove durante la celebrazione del 1918, quando il Re d'Italia ed il Re del Belgio visitarono e celebrarono l'opera di ingegneria militare, ringraziando gli uomini della 25° Compagnia Militare. Per uno strano scherzo del destino si presero gli onori, mentre i veri artefici erano assenti. Ma soprattutto penso a Ugo Cassina, matematico italiano che lavorò al fianco del Tenente Zappa e che all'epoca dei fatti aveva solo 19 anni (Zappa era un "anziano" di 29 anni). Ultimamente quando avvio un video su YouTube e parte l'immancabile spot commerciale, mi ritrovo davanti il viso di un bel giovine, labbra carnose, modi da figlio di Cumenda, abbronzatura giusta, capello cotonato, fondo tinta e sopracciglia ritoccate. Questo esempio di virilità mi spiega perché dovrei cogliere la straordinaria occasione offertami da Swappie, azienda scandinava che vende iPhone ricondizionati. Credo abbia la stessa età di Ugo Cassina al tempo in cui contribuì alla realizzazione della strada che oggi mi consente di perdere tempo su YouTube a guardare mister Swappie. E inevitabilmente penso che qualcosa deve essere andato storto. Come sarebbe andata la guerra se ad estremo baluardo difensivo ci fosse stato questo testimonial dal faccino angelico? Di generazione in generazione siamo passati dagli eroi del Pasubio alla generazione sconfitta della Seconda Guerra, dai sessantottini ai paninari, per poi arrivare a mister Swappie. Una involuzione verticale avvilente. Dove abbiamo sbagliato se cento anni fa potevamo affidare la difesa di una nazione a geniali diciannovenne capaci di realizzare un sogno ardito confidando nei più nobili ideali e invece oggi un diciannovenne medio ha da pochi giorni smesso di mangiarsi le caccole? Cammino sulla roccia del Pasubio, vinto dal rispetto per quello che hanno fatto i nostri avi e penso che sì, effettivamente, qualcosa deve essere andato storto. Dopo dieci giorni di mare e strade polverose arse dal sole meridionale, torno con grande piacere in quella che considero la mia casa adottiva. Oggi Gabriele propone il più classico degli anelli che porta alla Foresta della Lama ed io accetto con maggiore entusiasmo perché ho un legame particolare con questo luogo. La mia prima volta nella Foresta risale infatti a una gita scolastica fatta all'età di 11 anni, un giorno benedetto nel quale arrivammo scortati dalla Forestale nello stesso posto dove oggi sosteremo per breve tempo. Certi profumi evocano ricordi e certi episodi segnano un'esistenza, formano un carattere, contribuiscono a fare diventare uomo un bambino e plasmano l'essenza di quell'uomo. La foresta della Lama è per me uno di quei luoghi e trattiene fra le foglie dei suoi alberi millenari il dono magico di farmi ritornare indietro nel tempo e al tempo stesso farmi viaggare a volo d'aquila sul mio futuro. Mentre camminiamo verso il Gioghetto e prendiamo la lunga discesa che porta alla Lama, rifletto sull'origine di questi singolari toponimi. Sono vinto dal fascino della scelta che un tempo ha portato a stabilire il nome di un paese, di una località, di un fiume, di una fonte. In molti casi questo è accaduto così tanto indietro nel tempo che non esiste più nessuno che ne conservi memoria. Molte volte il toponimo è attribuito a persone o famiglie che hanno gestito o vissuto in quella zona. Nelle foreste casentinesi questo spesso accade per i piccoli fiumi, detti "fossi", che probabilmente segnavano i confini o erano affidati in gestione a gruppi familiari: Altari, Pianelli, Massoni, forse anche quello stesso fosso degli Scalandrini che oggi costeggeremo in ripida salita. Poi ci sono quelli affascinanti attribuiti agli animali: Sentiero del lupo, Poggio alle capre, Cavalla pazza, Siepe dell'orso, Crinale della vacca. Essendo questa una zona boschiva, da sempre sfruttata per l'approvvigionamento di legname di qualità, è facile intuire l'origine di alcuni toponimi: Seghettina, Campo alla Sega, La via dei Legni. Anche i termini Giogana e Gioghetto riportano al tempo nel quale i buoi venivano "aggiogati" per il trasporto del legname a valle. Ma anche in questo caso il toponimo dei toponimi è: la Lama. Questi nomi mi fanno pensare a quando gli abitanti, armati di asce e seghe, venivano in questi luoghi non per fare rilassanti passeggiate, ma per sfruttare la natura e portare sulle loro povere tavole un pezzo di pane sofferto e sudato. Comprendo l'esigenza di procurare materie prime, ma pare che un tempo non ci fosse particolare riguardo sul cosa e sul come. Le foreste venivano semplicemente saccheggiate, senza troppi scrupoli per l'etica ecologista che formalmente nemmeno esisteva. Nelle vecchie immagini di queste zone l'immagine comune è una costante: crinali spogli e versanti denudati, quasi violentati da un uomo che, senza rendersene conto, non stava abbattendo gli alberi ma se' stesso. Il toponimo Foresta della Lama cela una ardita contraddizione: foresta da abbattere con una lama. Ma le cose sono cambiate? I boscaioli sono scesi a valle per popolare le città della pianura e la montagna per lungo tempo è stata abbandonata. L'uomo vi è tornato solo di recente con una rinnovata coscienza. Gli alberi sono riscresciuti e queste zone sono state protette da Leggi mirate a tutelare l'Ambiente come res-publica di grande valore. Mi guardo intorno e penso, con rammarico, che però tutto sommato nulla è cambiato: continuiamo ad essere il peggior virus del pianeta. La nostra attenzione si è solo spostata verso altri luoghi da maltrattare e violentare. Non abbiamo perso la vocazione distruttiva ed autolesionista dei nostri padri, che almeno avevano l'attenuante generica dell'ignoranza. Mentre risaliamo il fosso degli Scalandrini, Gabriele giustamente si stupisce ed indigna per l'alto numero di fazzoletti lasciati lungo il sentiero, a testimonianza del fatto che la mamma dei cretini è sempre gravida, in ogni epoca, e che la Foresta della Lama resta per alcuni un luogo da maltrattare, come se non fosse un patrimonio di tutti. Quando lasciamo Rimini, in giro per le strade ci sono solo metronotte e spazzini. La partenza anticipata è costretta dalla meta odierna, i lontani Monti Sibillini. Mi sono un po' documentato e mentre ci avviciniamo alla meta tra frizzi e lazzi, nonostante il poco sonno infatti il gruppo è già sù di tono, penso al singolare legame fra l'esperienza odierna e le riflessioni del trekking della settimana precedente. Solo sette giorni fa scrivevo del viaggio interiore e di come sia importante, per lo scrivente, rendere l'esperienza della montagna anche un viaggio di analisi consapevole e del fatto che fuori dai templi dedicati al dio Apollo era affissa una targa che invitava i fedeli a conoscere se stessi. Oggi stiamo andando nel regno della Regina Sibilla, figura mitologica resa nota da alcuni romanzi cavallereschi. Non stiamo salendo sul Monte Sibilla verso la grotta che lo rende famoso, ma siamo comunque nel parco che deve il suo nome al monte ed al mito della Sibilla di Norcia, le cui peculiarità la accomunavano ad altre e forse più note sibille. "Là, sovra i gioghi dell'Appennin selvaggio, fra l'erte rupi una caverna appar: vegliano le sirene quel faraggio, fremono i canti e fanno delirar." (dal poema drammatico Sibilla, di Giulio Aristide Sartorio) Le sibille erano sacerdotesse che dispensavano saggezza e consigli di vita soltanto ai fedeli che erano disposti ad intraprendere il viaggio verso le loro dimore che erano immancabilmente isolate, lontane e spesso ubicate su alti monti o comunque in luoghi impervi. Tale viaggio era sempre lungo, difficile, tortuoso ed a volte rischioso. Il loro responso raramente era chiaro ma più spesso criptato, enigmatico e di difficile interpretazione, tanto che al giorno d'oggi l'aggettivo sibillino è sinonimo di ambiguità. Cito testualmente dal sito "Una parola al giorno": "Ibis redibis non morieris in bello" è il responso più classico della sibilla interrogata per un vaticinio. "Andrai, tornerai, non morirai in guerra" "Andrai, non tornerai, morirai in guerra": a seconda della punteggiatura, il "non" in latino può essere riferito al tornare o al morire. Così, un'affermazione sibillina, un discorso sibillino ha queste caratteristiche di tortuosità, di difficoltà interpretative, di oscurità e doppiezza. Trovo che sia un gioco semantico splendidamente ironico. Mentre lasciamo il rifugio del Fargno salendo verso Pizzo Tre Vescovi, penso sorridendo quanto sia stimolante il contrasto fra la cultura antica e quella moderna. I nostri padri per ottenere conoscenza erano disposti a viaggiare lungamente su cammini scomodi e rischiosi, per ottenere una risposta che, secondo i nostri canoni, non poteva essere considerata tale. La ricerca della conoscenza prevedeva caratteristiche che oggi abbiamo smarrito: pazienza, sacrificio e spirito di analisi. Gli uomini antichi non consideravano il sapere un dono dovuto di facile e chiaro accesso, ma una conquista per la quale si doveva essere disposti a pagare un prezzo talvolta anche troppo alto. Scendiamo dal pizzo ed ammiriamo con rispetto la cresta affilata che ci porterà sulla vetta di Pizzo Berro, seconda scalata odierna. Si tratta indubbiamente del tratto panoramico più apprezzabile, anche se oggi una nube bassa decide di celare ai nostri occhi la vista delle cime del Vettore, del Redentore e del già citato Monte Sibilla. Davanti a noi, apparentemente vicino, il crinale che sale verso la punta del Monte Priora, obnubilata come un Olimpo. Mentre salgo e giungo alla croce, ultimo ed affaticato, torno a riflettere sul concetto di viaggio e di conquista, apprezzando il piacere masochista che prova colui che è disposto a pagare il prezzo della conoscenza. Oggi abbiamo smarrito questa capacità e preferiamo le scorciatoie interrogando Google ed Alexa per quesiti di poco conto, risparmiandoci la fatica delle grandi risposte esistenziali, quelle che un tempo i nostri padri rivolgevano con grande sacrifico alle sibille che dimoravano nelle grotte su monti alti. Siamo diventati così bravi a risparmiare e a semplificare che non abbiamo solo smarrito il piacere della conquista, ma addirittura quali sono le domande importanti. Nella cultura superficiale e minimalista siamo diventati così bravi a togliere che abbiamo tolto anche l'essenziale. Qualche volta less is more ma altre, semplicemente, less is less. Al termine di una delle settimane più calde e afose dell'anno, i siti meteo prevedono un weekend di pioggia battente a partire da sabato pomeriggio, quindi decidiamo di comune e saggio accordo di non sfidare la sorte e rinunciamo alla programmata notturna sul monte Carpegna. Ne approfittiamo quindi per regalarci un inedito in zona Premilcuore, con drastica riduzione dei partecipanti. Alle 6,30 al bar siamo Gabriele, Paolo e Fabio, oltre allo scrivente. Iniziamo a camminare dal ponte sul Rabbi attraversando il centro del paese. Quasi raggiunto il maneggio Ridolla imbocchiamo il sentiero che sale ripido verso Monte Tiravento. I primi 5km ci costringono a salire senza lasciare troppo spazio alle parole. Tutta l'aria che ho nei polmoni mi serve per sbuffare come una locomotiva a vapore. Questa è la condizione ideale per camminarsi dentro, non con gli occhi distratti da ciò che mi circonda, ma intento a procedere a testa bassa, concentrato sul prossimo passo, poi sullo quello successivo e sull'altro ancora. Ansimando penso e pensando riscopro il piacere del camminare. Per meglio esprimere i miei sentimenti, rubo le parole allo scrittore statunitense Henry David Thoreau: "Sono allarmato quando succede che ho camminato un paio di chilometri nei boschi solo con il corpo, senza arrivarci anche con lo spirito." Recentemente ho letto il testo di Volker Winkler "La meditazione camminata" e, una volta ancora, ho scoperto quanto so di non sapere, come diceva Socrate. In questo libro non solo ho ritrovato tanto delle emozioni che vivo quando cammino. In un certo senso ho compreso perché amo camminare, soprattutto in montagna e particolarmente in mezzo agli alberi. Ma più ancora ho scoperto che la meditazione camminata è una pratica antica quanto l'uomo e che, particolarmente nella cultura orientale e segnatamente in quella buddista, lo scontato gesto del camminare è da sempre stato scelto come un potente veicolo di scoperta interiore. Improvvisamente mi sono sentito meno solo, meno folle e meno isolato in questo mio percorrere monti e valli alla ricerca dell'equilibrio e della pace, immerso nel profumo del bosco e vinto dall'incanto di una natura che non smette di commuovermi. Rubo ancora una frase per rafforzare il concetto: "In ogni passeggiata nella natura l’uomo riceve molto di più di ciò che cerca." (John Muir) Quanta verità in queste semplici parole. Oltre ai cari amici che oggi camminano al mio fianco, mi sembra quasi di vedere tante altre persone, che in altri luoghi e in altre epoche, hanno battuto questo stesso sentiero alla ricerca della consapevolezza. Credo che la maggior parte delle persone sappia solo camminare fuori, calpestando il suolo senza cercare di ottenere il premio più prezioso. Io bramo camminarmi dentro e per me si tratta di un percorso di consapevolezza. Fuori dal tempio di Apollo era affissa una targa, un invito agli adoratori della divinità che trovava dimora all'interno dell'edificio: “Conosci te stesso”. Trovo interessante che nella mia cultura, quella cristiana, l'invito in un certo senso sia il medesimo: "E questa è la vita eterna: che conoscano Te, il solo vero Dio" (Giovanni 17:3) Credo nella dottrina del gene divino e, in quanto figlio di Dio, trovo che, in un certo senso, conoscere me stesso corrisponda a conoscere Dio, e penso che il cammino interiore non sia solo un enorme piacere, ma anche un mio dovere cristiano. Raggiunto il crinale la strada diventa più facile e ritroviamo il piacere delle chiacchiere mentre cavalchiamo una cresta esposta e ventosa che entra ed esce nel bosco come un brucomela. Pare di essere in un loop come nei film. "Ma qui ci siamo già passati!". Il sentiero procede così fino a quando non raggiungiamo la strada forestale e incontriamo dei ciclisti che si stanno attrezzando per affrontare in picchiata la strada dalla quale siamo venuti, vestendo ginocchiere e protezioni da giocatori di football. Il loro approccio è diametralmente opposto al mio. Comprendo la bellezza del gesto atletico e la ricerca del benessere attarverso lo sport, ma ritengo che atraversando la montagna ad alta velocità perdano il piacere che deriva dal lento camminare. In bicicletta percorri molta strada ma vedi un decimo del camminatore. Io penso sia meglio andare piano, penso sia più importante la qualità del cammino piuttosto che la quantità di strada che percorri e forse, a volte, è semplicemente necessario fermarsi, chiudere gli occhi e ascoltare la voce del vento. Mi fanno pensare alle parole di un autore anonimo che oggi, nel mio 50mo anno, trovo particolarmente calzanti, quasi preoccupanti: "L’uomo che a cinquanta anni conosce se stesso come a venti, ha sprecato trent’anni della sua vita." Ogni anno lustro mi spinge a fare un bilancio e mi domando, sulla scia di questa riflessione: quanti anni ho veramente vissuto? Quanti anni ho invece sprecato? Clicca qui per vedere le foto di Gabriele
È diventata una bella tradizione quella del giro estivo organizzato da Alessandro, e mi unisco con piacere a questa traversata in alta quota. Purtroppo gli impegni tengono lontani molti membri dei due gruppi di Rimini e Faenza, quindi alla partenza ci presentiamo soltanto io, Alessandro, Dona e Andrea. Il programma prevede la scalata, l'attraversamento e la discesa dal massiccio del Sella, un panettone di roccia che attrae molti amanti della montagna. Dopo un interminabile viaggio diviso in due tappe, con sosta notturna ad Avio, soltanto alle 12 siamo in grado di mettere gli scarponi ai piedi al parcheggio della funivia del Passo Pordoi. Mentre i più bighellonano all'ombra del gigante, molti salgono sul sasso grazie alla funivia. Sono solo pochi i folli che attaccano a piedi le rampe che portano alla forcella e mentre salgo ne comprendo il motivo: la salita è lunghissima, parte in leggera pendenza per aumentare sempre di più il dislivello, contestualmente al coefficiente di difficolta. Il ghiaione rende incerto ogni passo. Mi lascio presto alle spalle gli amici di Faenza, partiti al piccolo trotto, quindi ho tanto tempo per riflettere mentre sbuffo sul fianco della montagna. In questo peregrinare solitario ho molto spazio per ragionare in isolata meditazione e due principali riflessioni occupano la mia mente. La prima delle due è la seguente: "L'unica salita impossibile è quella che scegli di non affrontare" Ne sono profondamente convinto. Certamente esiste un limite a ciò che possiamo realizzare, ma penso che molte volte ci lasciamo vincere dalla pigrizia, dalla poca stima, dallo scoraggiamento, dall'autocommiserazione e dalla paura, abbassando l'asticella del nostro limite reale. La montagna mi impone il confronto con me stesso, con i miei limiti e le mie insicurezze. È davvero un maestro muto e nel silenzio cerco di imparare la lezione. Tentare non costa nulla e il vero fallimento è rinunciare, darsi per sconfitti in partenza. La seconda e più profonda riflessione che affiora alla mia mente, mentre sudo chino sotto il peso del mio zaino è: "Ma quanto bip costava il biglietto della funivia?" Mi sono fermato due volte, una per mettere una ginocchiera a braghe calate, e la seconda per indossare una maglia perché i gradi scendono in modo inversamente proporzianale al salire dei metri. A pochi passi dalla cima mi raggiunge Andrea, fresco come una rosa. Saliamo l'ultima rampa aggrappati a una cima gelata a causa della neve che non vuole sciogliersi nel canalone sotto la forcella. Il rifugio del Passo pare una reggia e il panino con il wurstel sembra un pasto da re. Ricompattate le fila proseguiamo verso il rifugio Boè, evitando di salire la cima dell'omonimo Pizzo, a causa del poco tempo a disposizione. Col senno di poi mi rammarico per questo traguardo solo sfiorato. La mancata salita a Capanna Fassa rende l'opera incompiuta, ma questo mi offre lo spunto per decidere di tornare. Dopo una piacevole serata al rifugio e un sonno ristoratore, riprendiamo la nostra traversata tagliando l'altopiano come astronauti che esplorano la luna. A quasi 3000 metri la vegetazione è solo un lontano ricordo ed ogni metro è lastricato di roccia e sassi, sassi e roccia. Qua e là lingue di neve a ricordarci che in inverno il massiccio è completamente ammantato. Oggi la neve resiste solo nei punti meno esposti, ma ci costringe ad arrancare quando non possiamo fare a meno di affrontare la coltre ghiacciata. Un gruppo di veneti dal passo spedito ci supera agevolmente e attacca la salita del Pisciadù, mentre noi restiamo a guardarli con il naso verso il cielo, a metà via tra il biasimo e il rispetto. Dopo poche rampe raggiungiamo un belvedere mozzafiato: la cima del pizzo sovrasta un miniscolo lago di montagna e la parete verticale pare un corazziere posto a sentinella del rifugio che sorride allo specchio d'acqua. Dopo una sosta a base di strudel e sciroppo di lampone, riprendiamo la via verso Passo Gardena lungo la via più ripida che mi è mai capitato di percorrere. Il sentiero scende a picco ed io abbraccio le funi metalliche come il più caro degli amici. C'è un motivo se non voglio fare vie ferrate, ed oggi ne trovo conferma. La discesa mi pare interminabile, anche quando si addolcisce raggiungendo fondo valle. Dopo due giorni di bianco accecante finalmente il verde mi riempie di nuovo gli occhi. Qui il Pittore, parco di piacevoli cromie in alta quota, ha dato fondo alla sua tavolozza pennellando il panorama di mille tonalità di verde, marrone e blu. Il rosso, il giallo e il viola dei delicati fiori montani punteggia un quadro che alla mia vista è già un capolavoro. Il rombo dei motori scioglie l'incanto di camminare in questo affresco tridimensionale e mi riporta bruscamente al quotidiano, fatto di caos e cacofonia, lasciandomi però sul viso la traccia di un sorriso beato, cosciente del fatto che lassù, dove non osano i motori, tutto è armonia ed equilibrio. |
Massimo
Massimo è sposato con Roberta ed è padre di 2 figli. Lavora tutti i giorni al computer e nel tempo libero scappa in montagna, il suo spazio libero fra foglie e nuvole. Archives
Agosto 2020
|